Gaja Cenciarelli, Sangue del suo sangue, Nottetempo *Narrativa* (2011), 344 pagine, euro 16,50
I personaggi che si muovono in uno scenario desolante di ipocrisia, formalità, sfruttamento e cinismo sono spinti come da uno spirito interno che li fa agire, parlare o stare zitti, e quello spirito è proprio la rabbia. Una rabbia in soggettiva, quella di Margherita, protagonista indiscussa e silenziosissima della storia; una ragazza costretta a vivere con un padre, generale dell’Arma dei Carabinieri, che abusa di lei, sotto gli occhi allibiti e freddi del fratello e con una madre inadeguata che non si accorge (o si disinteressa) di nulla. Una ragazza costretta a subire vessazioni anche dopo la morte del padre, ucciso barbaramente dalle BR, per mano di un fratello assetato di sangue e violenza. Quando riesce a scappare, pensando di riscattarsi grazie a un ruolo che le viene prospettato come importante, ancora una volta rimane muta, pietrificata davanti all’ipocrisia di un mondo politico che la vuole solo come specchietto per le – stupide – allodole.
Margherita parla poco, mangia poco (la madre le ha inculcato che mangiare è male), dorme poco e si guarda intorno. Piano piano scopre attorno a sé tanti piccoli universi di rabbia, che si incrociano, si scontrano, si incontrano per costruire insieme o distruggersi a vicenda. In tutta questa rabbia trova un’amica (o quello che ci si potrebbe più avvicinare, per una che ha sempre vissuto in solitudine), Milla, sua collega di “lavoro” e universo parallelo dove la rabbia di Margherita nei confronti della famiglia è decuplicata e “organizzata” nei confronti di un uomo, Bruno Chialastri, che rappresenta tutto il peggio della peggiore politica. Milla è la segretaria di Chialastri e il suo ruolo di vicinanza a quest’uomo che pur di compiacere il pezzo grosso di turno, pronto per il Parlamento, usa come pedine tutti quelli che gli stanno attorno, perfino la sua famiglia, per un ritorno di immagine.
La rabbia di Milla è una rabbia generale, quella che ogni tanto monta anche a noi davanti a certa gente, certi comportamenti che tanto hanno del Chialastri del romanzo, che la porta a unirsi a un gruppo di sovversivi de noantri, con la testa alle BR e un progetto punitivo che alla fine appare più come uno sfogo globale. Liberatorio, senza dubbio.
Il racconto in soggettiva di tutta la prima parte del romanzo si stacca (pur rimanendo puntato su Margherita) dalla visione del singolo personaggio in relazione al mondo esterno e diventa corale verso il finale. Un finale che è una resa dei conti per tutti i personaggi; vengono messe a nudo le loro debolezze, la lucidità soprattutto che risiede nel profondo di ogni follia (Massimiliano, il fratello di Margherita, è un personaggio molto complesso, la cui storia andrebbe letta su un binario parallelo), di ogni ipocrisia, di ogni tradimento.
Le donne escono sconfitte solo in apparenza da questo romanzo; sono umiliate, tradite, vessate, picchiate, represse, ma alla fine nel loro intimo hanno tutte una grande forza, una voglia di mettersi in discussione, di riscattarsi. A uscirne devastati sono gli uomini, figure di dubbia moralità, arrivisti, cinici e deboli, che credono di darla a bere alle donne e di usarle per il loro tornaconto (in questo, campione è Pier, amico di infanzia di Margherita che la “tradisce” e la dà in pasto a Chialastri). Dietro, come in ogni espressione estrema di forza, c’è sempre una grande debolezza, solitudine e, anche nel caso degli uomini, rabbia.