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“La Rabbia” di Marco Mantello [pt.1]

Creato il 05 maggio 2012 da Wsf

“La Rabbia” di Marco Mantello [pt.1]

Marco,

scopro subito le carte, il tuo romanzo, La rabbia (Transeuropa, collana Narratori delle riserve, 2011), mi ha entusiasmato. Dalla prima all’ultima pagina. Del tutto trascurabili gli alti e i bassi a confronto del mio giudizio finale. Qui per trovare la quarta di copertina e una breve rassegna stampa.
Inizio col dire, per prendere un po’ le misure, cosa non è questo libro. Non è un romanzo riassumibile. Non è possibile, se non per mero merchandising editoriale, ridurlo a libro che tratta le vicende familiari di un famoso scrittore (Leandro Van Sandt) sul viale del tramonto e di un figlio quarantenne (Filippo Van Sandt) in lotta tardiva per la propria affermazione. Come non è un romanzo d’esordio nel comune senso del termine.

La rabbia è un intero, un solido, paragonabile a una sfera, se la narrativa fosse geometria (e credo proprio che la narrativa sia geometria). La rabbia è una fotografia dei nostri tempi. (Non a caso, è un primo romanzo andato a finire nella lista dei finalisti del Premio Strega 2012.) Una sfera dagli innumerevoli cassetti, se mi è concesso indugiare ancora nella metafora geometrica. Cassetti che s’incastrano. Che non si richiudono, dopo che il loro contenuto è stato violentemente rovesciato sulla faccia del lettore. Così ci si trova a masticare Genova – G8 2001, lo squarcio lasciato nella storia del nostro malandato Paese. A masticare le dinamiche del potere, quelle mutate e mai veramente mutate tra la Prima e la Seconda Repubblica. Il potere trattenuto avidamente nelle mani dei padri. Ecco, il potere. Potere vecchio che ingolfa i cilindri del motore. Potere simbolicamente rappresentato nelle efficaci metafore del mondo editoriale e universitario: sistemi stagnanti di impossibile accesso, di faticosa permanenza se privi di chilometri di lingua e peli sullo stomaco, di straordinaria e ipocrita uscita se questa uscita avviene in diretta e a bordo di una cassa di mogano, come nel caso di Leo. Potere: questo sconosciuto per noi “generazioni di mezzo”. Né figli né padri totalmente, di certo condannati a vivere l’inversione repentina della mobilità sociale. Potere che decide (e come potrebbe essere altrimenti) della tua vita, ma soprattutto della tua morte. I cani lanciati dalla finestra da Leo Van Sandt non ne sono che l’espressione più macabra. E ancora il “potere” di abbandonare, come fa Filippo, la propria ragazza incinta spedendole appena una busta con i soldi per l’aborto. Potere che gioca con le nostre esistenze e la libertà di decidere della nostra fine, l’eutanasia, la dolce morte. Potere: questo pericoloso gioco nelle mani di pochi, che non permette neanche alla malattia di essere discriminante soggettiva. E tutto è sotteso a quel filo rosso, la rabbia appunto: pendolo tra follia e frustrazione. La rabbia, l’emozione dominante del secolo “postmoderno”: la barzelletta della nuova narrazione, del nuovo libro, quando invece siamo ancora sulla stessa trita e ritrita pagina.

[Iniziamo da qui il nostro confronto. Cosa non c’è nel libro di tutto questo? Cos’altro c’è ancora, invece? Cosa volevi esprimere mentre infilavi a lettere la tua “rabbia” dentro al pc?]

Mi interessava  tracciare un quadro dei possibili nessi fra rapporti di potere e vincoli affettivi, partendo da una letteratura dell’esperienza. Una letteratura dell’esperienza ti costringe a fare i conti con te stesso, a non assolverti, a non concepire i rapporti e le condizioni umane come una sorta di fotosintesi clorofilliana governata da leggi immutabili che lo scrittore trova e rappresenta, con la precisione di uno scienziato di fine ottocento, o di un esteta. Se invece parti dalle ferite, sei costretto a fare i conti con la tua storia, a non restarne fuori, a esporti, il che non significa buttare giù un’autobiografia di se stessi al quadrato, ovviamente, né sublimare. Quanto al discorso specifico sul potere, volevo evitare le dicotomie nette fra vittime e carnefici. Il padre e il figlio, i due protagonisti del romanzo, non si redimono né si ridefiniscono, sono specchi di un’epoca e il loro tratto caratterizzante è l’ambivalenza morale. Parteggi per l’uno e per l’altro e allo stesso tempo li odi, sono ora inamabili e cinici, ora indifesi e sconfitti. Mi colpisce, e lo trovo molto pregnante, il richiamo che fai al potere esercitato da Filippo, quando spedisce a Cecilia la famigerata busta con i soldi per farla abortire. Credo anch’io che La rabbia sia irriducibile a un’epopea familiare, o a un conflitto fra generazioni come avviene – che so? – in Pastorale americana, dove predomina la generazione dei padri, o nei Demoni di Dostoevskij, dove si traccia una visione del tutto rancorosa del nichilismo delle nuove generazioni, elette a capri espiatori della propria coscienza morale. Mi viene in mente, piuttosto, il saggio di Pasolini sui giovani infelici, dedicato alle colpe dei figli, con quel rovesciamento del paradigma edipico in tutte le sue varianti: il pagare colpe non proprie per via del Fato, o di una procedura burocratica, o del puro caso, come insondabili segni della propria colpevolezza. Era importante  partire da figure archetipe, e valorizzare il determinismo ma come condizione storica attuale, non come condizione umana mutuata della tragedia greca. (grassetto nostro) Nulla si muove, nulla cambia e la volontà non ha potere, oggi, qui e ora. Credo che la nostra epoca, e la storia italiana degli ultimi anni in particolare, siano dominate da un’alternativa secca, taciuta, che nessuno confessa a se stesso nel momento in cui sceglie per l’una o l’altra via: o la clonazione sociale o il fallimento. Questa è a mio avviso una prerogativa del potere, a tutti livelli, il fatto che definisce gli scopi, e le alternative, accollandoti le sue responsabilità come se fosse colpa tua, o suo merito. Il fatto che ti permette di intuire in anticipo quali saranno gli effetti delle “tue” scelte, o cosa non accadrà nella tua vita se rimani fermo. Ecco in questa sorta di chiaroveggenza inconscia, e inconfessata, e sovente banalizzata nel paradigma dell’immaturità, come può essere quando devi vestirti in un certo modo per andare a lavorare da Philip Morris, o da McKinsey, giace lo spettro di una società gerarchica, e classista, e direi statica, immota, e il paradigma stesso della falsificazione dei rapporti umani, filtrato dal bisogno di affermazione sociale, che muta in rabbia. Credo che una delle costanti, da parte di chi un potere lo detiene veramente, a livello economico o politico o familiare o di corporazione italiane o quello che vuoi, sia non tanto e non solo la colpevolizzazione dello ‘sfigato’ di turno, dell’escluso, quanto il girarsi dall’altra parte quando il cadavere scorre sul fiume, continuando a bere il proprio cocktail, assieme a quelli che hanno fatto la scelta giusta. Devi contare qualche cosa, devi essere qualcuno o diventarlo, perché possano considerarti un nemico, o un loro pari. Beninteso, io il mio libro non l’ho pensato affatto come un bignami del ‘siamo tutti colpevoli’, ecco questo no. L’ho scritto partendo da una  visione critica dei cosiddetti ‘figli’ e delle loro colpe, è un libro sull’assenza di conflitto, e sulla dispersione dell’identità, e direi sulla massificazione dell’identità, sulla non scelta. Così il determinismo. E il paradosso di un figlio che nell’unico momento in cui si oppone, dice di no – la scena senese, per intenderci – e abbandona la sua corporazione di appartenenza,, subisce un radicale e beffardo mutamento fisico, assumendo le sembianze paterne. Filippo diventa una copia di suo padre, nel momento di massima liberazione dalle catene.  Per spiegarmi ancora di più sui temi del potere e dell’identità, c’è questo passo tratto da una delle tante scene che ho dovuto tagliare dal manoscritto originario. Te lo vorrei far leggere perché segna un possibile passaggio: la stabilizzazione di quell’assenza di conflitto di cui parlavamo poco fa, da un contesto familiare a un contesto più ampio. Siamo alla fine della storia. Filippo è salito su in auto a Vicenza, dai genitori della Marta, incinta all’ultimo mese di gravidanza di loro figlio. La cena è finita e Filippo è di là in camera, sdraiato a letto e sente le voci dei commensali a tavola, berciare di politica e tasse…

«Era come avere in testa un individuo collettivo, con quel senso maturo di dispersione e quel totale sovrapporsi di una memoria non sua ai ricordi più intimi e personali, ivi compresa la morte del padre.

Una volta superata la fase edipica, era l’individuo collettivo, a definire le regole di condotta, il ‘questo è da dirsi’ e ‘questo no’, il fare e il non fare, quando dove e perché. In una parola: la sua pragmatica coscienza adulta. Quando nasce un individuo collettivo, lo scorrere dei nostri anni resta confinato in una zona grigia del cervello, ingannevolmente atemporale, a metà strada fra il non accaduto e il già successo. Questo non tanto perché l’individuo collettivo è impregnato dei valori che un’astratta società di uomini ci infila dentro, ma perché la società quella reale, storica, attuale, circoscritta alle proprie conoscenze di tutti i giorni, si compone di individui collettivi. Nel loro agire pubblico e privato, hanno la costanza di un gocciolio lentissimo. Essi tendono a ricondurre le persone nell’alveo dei loro limiti, la loro forza è centrifuga. Come un anestetico proiettano il senso della normalità su chiunque faccia, effettivamente, qualche cosa di diverso. Attraverso la mediazione dei rapporti affettivi, o della semplice solidarietà fra estranei, essi creano il controllo sociale. Da quando suo padre era morto, e Filippo era diventato adulto, era come se esistessero due memorie, nella sua testa, la prima delle cose che aveva creduto di vivere come Filippo. La seconda di quelle stesse cose ma viste con gli occhi dell’individuo collettivo. Così era successo per Genova, l’appuntato Capranica e i corsi universitari ad Arezzo, così per Cecilia e il loro soggiorno a Berlino, così sarebbe successo anche per Graziadei e la Task Force antieutanasica, o per la nascita di Leo jr.. Tutti eventi doppiati da voci non sue, che diventavano, con il tempo e l’abitudine, la sua voce. Questa progressiva erosione delle esperienze individuali, questa chiara preveggenza in negativo di futuri certi, questa rappresentazione anticipata e del tutto attendibile delle azioni e delle reazioni, si manifestava quando rimaneva solo. La morte stessa non avrebbe dato conto degli stati di sospensione permanenti. ‘Parioli alti candidato allo Strega!’ lesse dalla Cultura e poi…»

…e poi hanno candidato te allo Strega.

[fine prima parte – segue qui]


Filed under: Dinamiche, narrativa, Recensioni Tagged: 2011, complessi edipico, dinamica, Filippo Van Sandt, inedito, La rabbia, Leandro Van Sandt, Marco Mantello, mimesi, Narratori delle riserve, premio Strega, prima parte, recensione, Transeuropa

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