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La radio e tutta la storia minuto per minuto

Creato il 09 novembre 2012 da Faustodesiderio

Quelli che hanno venti anni non hanno fatto l’esperienza della domenica calcistica passata con la radiolina incollata all’orecchio per seguire Tutto il calcio minuto per minuto. Anzi, già che ci siamo, quelli che hanno venti anni non hanno mai fatto neanche l’altra esperienza domenicale – praticamente due riti – che consisteva nel lasciare la radio e accendere la Tv per seguire le rocambolesche avventure della banda di 90° minuto con quel gran signore che era Paolo Valenti nel ruolo di capo banda. Quelli che hanno venti anni non sanno di questo e di quello ma dalla loro c’è il fatto che hanno venti anni e avranno senz’altro il tempo, se lo vorranno, di imparare qualcosa alla scuola di Enrico Ameri, Sandro Ciotti e anche Tonino Carino da Ascoli. Quelle trasmissioni, infatti – come si usa dire – sono dei cult oppure sono mitiche e ogni tanto sono ricordate e celebrate. Ma tra le due, è quella radiofonica, forse, ad avere un maggior significato storico, sociale e finanche poetico. Quando le partite non potevano essere seguite in televisione, Tutto il calcio minuto per minuto era l’unico modo per “vedere” le partite della domenica e le sue radiocronache erano il sottofondo “musicale” della vita italiana in casa, in auto, al mare, in montagna, in cielo, in terra e in ogni luogo. Quella geniale trasmissione ha fatto per davvero, senza esagerazione, la storia della radio italiana e quando entrò in crisi, e fu negli anni Novanta, si visse dentro e fuori la radio un vero dramma radiofonico e sociale. Entrò in crisi un rito che era allo stesso tempo singolare e plurale, individuale e familiare.

Un poeta come Franco Fortini rivolge l’orecchio alla radio e alle partite nella sua Quella cosa in Lombardia: ai due amanti alla ricerca di un luogo nascosto e silenzioso nella campagna giungono solo gli echi del rintocco di una campana e di una radio che annuncia «lontana (…) alle nostre due vite/ i risultati delle ultime partite». Quel programma era rappresentato da un grande fotografo nel cogliere una famosa immagine, quella di un pastore sulle desolate pendici del Gennargentu, accovacciato tra pietre e cespugli secchi, con il suo tipico copricapo e, premuta sull’orecchio, una radiolina che lo aggiornava sulle imprese del Cagliari di Gigi Riva lanciato verso lo scudetto del 1970. Così, come una presenza ineludibile, fra tristezze e ironie lo raccontano le canzoni di Baglioni e degli 883 e il Massimo Troisi di Ricomincio da tre. E poi, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, le imitazioni, la proliferazione delle radiocronache del campionato, anzi dei campionati, anche di quelli delle serie minori, che invadono l’etere, sulle frequenze delle centinaia di radio libere, locali, che sulla diretta domenicale dell’incontro della squadra di calcio della città costruiscono buona parte dei loro ascolti, della loro popolarità e, talvolta, della loro stessa identità. Ma un bel giorno, l’avvento della Tv a pagamento, la vendita soggettiva dei diritti sul campionato, lo smembramento della giornata calcistica in uno “spezzatino” e la telecronaca in diretta di tutte le partite rompono l’incantesimo. L’evidenza dell’immagine annulla la magia evocativa dei suoni e delle parole e quello che per anni era stato un rito condiviso, un simbolo vivo, è svuotato del suo senso, posto ai margini del circuito mediatico, trasformato in un oggetto di culto esclusivamente nostalgico, di cui la stessa Tv, in un suo programma come Quelli che il calcio ripropone i protagonisti nel ruolo di “vecchie glorie”. A volte, ascoltando per caso le radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto avverto una doppia sensazione: da un lato mi sorprendo a pensare che le voci e i suoni che mi giungono sembrano arrivare direttamente da un altro mondo, come se Sandro Ciotti continuasse per l’eternità a fare la sua radiocronaca domenicale, e dall’altro lato mi sembra di tornare indietro di venti e passa anni e la mente si popola di immagini e volti e situazioni di un tempo andato che ha ancora la forza di trasmettere un gusto e un sapore originale (sarà l’età).

Ma che cos’è questa “radio”? Questa scatola con delle manopole che regolano le frequenze e i suoni. Che cos’è? Ognuno ne avrà una o più d’una in casa. Magari sul frigorifero o in salotto o relegata chissà dove a prendere polvere. Nel frattempo è stata sostituita da “oggetti” ed “elettrodomestici” più sofisticati e tecnologici. C’è stato un tempo in cui, però, non solo quella scatola con le manopole era perfettamente funzionante ma era anche tecnologicamente avanzata: un po’ come il giradischi e il mangianastri. La radio ha fatto la storia della tecnologia del Novecento. È figlia diretta e legittima dell’elettricità ed è nata da uno straordinario concorso di talenti e fantasie. Giorgio Simonelli ne racconta la avventurosa storia nel libro Cari amici vicini e lontani edito da Bruno Mondadori.

Una storia avventurosa e curiosa perché in origine la radio fu concepita come anti-mass medium destinato non all’ampia divulgazione ma alla trasmissione di messaggi in codice. Mentre nei primi decenni del Novecento diventò lo status symbol del ceto medio desideroso di aprire una finestra sul mondo direttamente dal suo salotto di casa. Un elettrodomestico culturale capace di intrattenere e tenere compagnia, ma anche un mezzo politico di propaganda che fa risuonare i “discorsi del caminetto” del presidente americano Roosevelt e la voce di Mussolini nelle case di tutti gli italiani. In periodi di guerra la radio è stata un veicolo istituzionale fondamentale, ma anche uno strumento di diffusione di informazioni e notizie per i clandestini. Della radio si servì Orson Welles per le sue irresistibili burle, scherzi ripetuti su scala minore da Gianni Boncompagni, Renzo Arbore fino a giungere a Fiorello. La radio tutt’oggi, dopo un periodo di stanca e di crisi, è rifiorita riprendendosi con nuovi programmi di parole e musica i suoi radioascoltatori e si è presa persino la sua rivincita sulla televisione se la televisione per rinfrescarsi porta in video proprio la radio e chi la fa. È il caso di rispolverare quella vecchia radio che avete riposto in un cassetto con l’idea di essere ormai un oggetto di antiquariato.

Il libro di Giorgio Simonelli ricostruisce la storia della radio con l’aiuto del cinema. È stato notato, infatti, che la radio viene bene al cinema (anche la televisione, in verità, che – come cantava proprio un vecchio brano – è il killer della radio, ha dedicato spazio alla radio celebrandola con trasmissioni non a caso di Arbore, titolo: Cari amici vicini e lontani che, come il libro, è chiaramente ispirato al famosissimo annuncio di Nunzio Filogamo). Il libro è diviso in quattro capitoli che prendono il titolo da quattro celebri film: Titanic, Radio Days, I Love Radio Rock, A Prairie Home Companion. Ma quando e da chi è inventata la radio? Non è facile rispondere, soprattutto non è possibile rispondere in modo univoco e netto con un solo nome. Una grande enciclopedia tedesca attribuisce la paternità della radio a Hertz, una russa a Popov, l’Enciclopedia Britannica a Lodge, il Larousse cita Marconi dopo Branly e la Nuova Enciclopedia Sonzogno parla prima di tutto di Marconi. Insomma, ognuno tira acqua al suo mulino. Eppure, non si tratta solo di sciovinismo. In realtà, se tutti si attribuiscono la paternità della radio è proprio perché nessun paese e nessun uomo può effettivamente farlo in maniera esclusiva perché la nascita della radio è il risultato di un concorso di forze intellettuali e di organizzazione industriale in tutto il mondo. Spesso s’indica una significativa coincidenza di date: nel 1895 c’è l’esperimento di Pontecchio, con cui nasce la radio, e la prima esibizione pubblica dei fratelli Lumière al Salon indien du Grand Café di boulevard des Capucines a Parigi. Eppure, la radio appartiene più al Novecento che all’Ottocento. E non è solo una questione di date o di cronologia. Tra radio e cinema sono in gioco due universi tecnico-scientifici molto lontani e diversi. La radio, come diceva da subito Marconi, è fin dai suoi inizi wireless: “senza fili”. La radio è immateriale. Questa sua immaterialità ne contrassegna la sua modernità e i suoi molteplici sviluppi e le applicazioni.

C’è un gustoso aneddoto da raccontare a proposito della immaterialità della radiofonia. Guglielmo Marconi, che lavorava al servizio di Sua Maestà in Inghilterra, cercava da buon elettricista il punto giusto dove poter sistemare l’antenna del “telegrafo senza fili” che avrebbe consentito alla regina Vittoria di ricevere comunicazioni riguardanti la salute del principe di Galles dalla nave su cui il giovane viaggiava in crociera di convalescenza da un brutto infortunio. Cercando il punto giusto, però, Marconi – si era nel 1898 – era entrato in una zona interdetta ai servitori all’interno dei giardini del palazzo reale. La regina se ne accorse e disse: «Assumete un altro elettricista». Ma di licenziare Marconi non se ne parlava proprio. Perché il geniale italiano da un anno era detentore del brevetto della sua invenzione registrato in Gran Bretagna ed era titolare della Marconi’s Wireless Telegrph Company e quindi non poteva essere licenziato dalla regina che per il suo grande impero aveva necessità della circolazione delle informazioni in tempo reale. Per quella volta l’elettricista non fu licenziato e ne fece le spese il giardiniere.

Il paradosso più curioso della radio è proprio quello della comunicazione. Noi oggi la annoveriamo tranquillamente tra i mezzi di comunicazione di massa ma la radio nacque invece come “comunicazione da punto a punto”. Dunque, non per tutti ma per pochi, non pubblica ma segreta. Quindi molto diversa, la radio, dal cinema e dalla televisione che nascono da subito rivolgendosi al pubblico. La radio è molto più simile ad internet: anche internet nasce come strumento segreto, usato nell’ambiente militare, per le comunicazioni interne e in codice. Solo successivamente si apre al mondo e diventa, forse, il maggior mezzo di comunicazione di massa. Un destino molto simile alla radio che, non a caso, è presente da subito nelle guerre che aprono il Novecento. Poi arrivò David Sarnoff, e fu un’altra musica.

tratto da Liberalquotidiano.it del 9 novembre 2012



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