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La ragazza che giocava con il fuoco, secondo romanzo della trilogia Millennium.

Creato il 03 giugno 2011 da Rstp
La ragazza che giocava con il fuoco, secondo romanzo della trilogia Millennium.La ragazza che giocava con il fuoco  è un romanzo poliziesco dello scrittore e giornalista svedese Stieg Larsson. Il romanzo è il secondo della trilogia Millennium, pubblicata postuma dopo la prematura scomparsa dell'autore.
Nel romanzo si ritrovano i personaggi di Lisbeth Salander, Mikael Blomkvist e di altri già presenti in Uomini che odiano le donne, primo romanzo della trilogia.
Mikael Blomkvist è tornato saldamente alla direzione di Millennium, la rivista da lui fondata è ascesa alle luci della ribalta per aver smascherato i loschi traffici dei vertici della finanza svedese. Unico rimpianto: non avere più alcun rapporto con la giovane, geniale hacker Lisbeth Salander, che gli ha salvato la vita e con cui ha avuto una breve ma intensa relazione. Lisbeth, infatti, ha tagliato ogni contatto e si trova in viaggio ormai da mesi, alle prese con il tentativo di ricostruirsi una vita dopo la travagliata (e ai lettori pressoché sconosciuta) infanzia, le violenze del tutore e una nuova emergente passione: la matematica, cui si appassiona nel tentativo di risolvere una versione del teorema di Fermat. Il giornale è in procinto di dare alle stampe un'esplosiva inchiesta sul trafficking di prostitute dai paesi dell'Europa orientale, nata dalla collaborazione con il giornalista Dag Svennson e la sua compagna Mia Bergman. Il progetto si blocca nel modo più cruento: l'uccisione di Dag e Mia, nonché dell'avvocato Nils Bjurman, crudele tutore di Lisbeth. Le indagini di polizia e media si concentrano su quest'ultimo delitto e scatta una caccia all'uomo nazionale alla ricerca della violenta, pericolosa, vendicativa e asociale hacker.
A crederla innocente solo pochi fedelissimi tra cui Mikael, che conosce le singolari abitudini, ma la forte moralità di Lisbeth, la donna che si difende da sola e che odia gli uomini che odiano le donne. L'intrigo si fa sempre più ampio e coinvolge poliziotti, politici e perfino esponenti dei servizi segreti, trascinato dai disperati sforzi di Mikael di dimostrare l'innocenza dell'amica e forse di salvarla da un destino anche peggiore.
Era legata con cinghie di cuoio a una stretta branda con i telaio in acciaio. Le cinghie tese sopra il torace premeva­no. Era stesa sulla schiena. Le mani bloccate all'altezza dei fianchi.
Ormai aveva rinunciato da tempo a qualsiasi tentativo di Hberarsi. Era sveglia ma teneva gli occhi chiusi. Se li avesse i si sarebbe ritrovata al buio, l'unica fonte di luce era debole striscia che filtrava da sopra la porta. Si sentiva in bocca un sapore cattivo e non vedeva l'ora di potersi la­vare i denti.
Una parte della sua coscienza tendeva l'orecchio per co-gfcere il rumore di passi che avrebbe indicato che lui stava arrivando. Non aveva la minima idea di che ora della sera fesse, al di là del fatto che aveva l'impressione che comin­ciasse a essere troppo tardi perché venisse a trovarla. Un'im-ptowisa vibrazione della branda la indusse ad aprire gli oc­chi. Era come se un macchinario di qualche genere si fosse avviato da qualche parte all'interno dell'edificio. Ma dopo qq paio di secondi non sapeva se fosse stata solo un'illusio­ne oppure se il rumore fosse stato reale.
Mentalmente spuntò un altro giorno sul calendario.
Era il suo quarantatreesimo giorno di prigionia.
Avvertì un prurito nel naso e girò la testa in modo da poterlo sfregare contro il cuscino. Sudava. Nella stanza l'aria era calda e soffocante. Indossava una semplice camicia da notte che le si era arrotolata sotto il corpo. Spostando l'an­ca riusciva ad afferrare l'indumento fra l'indice e il medio e a tirarlo giù da una parte un poco alla volta. Ripetè il pro­cedimento con l'altra mano. Ma la camicia faceva ancora una piega sotto l'osso sacro. Il materasso era sformato e sco­modo. Il totale isolamento faceva sì che ogni piccola im­pressione, che altrimenti sarebbe passata del tutto inosser­vata, si ingigantisse pesantemente. Le cinghie erano abba­stanza lasche da permetterle di cambiare posizione e met­tersi sul fianco, ma anche così era scomoda perché doveva stare con una mano dietro la schiena e questo le faceva in­torpidire il braccio.
Non era spaventata. Al contrario sentiva accumularsi den­tro di sé una rabbia violenta.
Ma era anche tormentata dai suoi stessi pensieri che si tra­sformavano costantemente in sgradevoli fantasie su ciò che le sarebbe successo. Odiava la sua impotenza coatta. Per quanto cercasse di concentrarsi su qualcos'altro per far pas­sare il tempo e reprimere il pensiero della sua situazione, l'angoscia riusciva comunque a filtrare. Ristagnava intorno a lei come una nube di gas minacciando di infiltrarsi nei suoi pori e avvelenarle l'esistenza. Aveva scoperto che il modo migliore per tenere lontana l'angoscia era fantasticare di qualcosa che le desse una sensazione di forza. Chiuse gli oc­chi e richiamò l'odore della benzina.
Lui era in macchina con il finestrino aperto. Lei gli si av­ventava contro, versava la benzina e accendeva un fiammife­ro. Questione di un attimo. Le fiamme si alzavano subito. Lui si contorceva dal dolore e lei sentiva le sue urla di terrore e sofferenza. Poteva percepire l'odore della carne bruciata e quello più aspro del rivestimento e dell'imbottitura dei sedili che si incenerivano.
Probabilmente si era assopita, dal momento che non ave­va sentito i passi, ma di colpo fu perfettamente sveglia quan­do la porta si aprì. La luce dal rettangolo illuminato l'accecò.
Alla fine lui era venuto.
Non sapeva quanti anni potesse avere, ma era grande. Aveva i capelli arruffati castano scuro, occhiali cerchiati di nero e una rada barbetta. Profumava di dopobarba.
Odiava il suo odore.
Rimase ritto in silenzio ai piedi della branda e la osservò a lungo.
Odiava il suo silenzio.
Il suo viso era in ombra nel controluce della porta aper­ta e lei vedeva solo la sua sagoma. D'un tratto le rivolse la parola. Aveva una voce nitida e profonda che sottolineava | in maniera pedante ogni parola.
Odiava la sua voce.
Le disse che era il suo compleanno e che voleva farle gli auguri. La voce non era sgarbata o ironica. Era semplice­mente neutra. Lei indovinò che stava sorridendo.
Lo odiava.
Lui si avvicinò e girò intorno alla branda. Poggiò il dor-| so di una mano umidiccia sulla sua fronte e le passò le dita fra i capelli in un gesto che probabilmente voleva essere gen-| tile. Era il suo regalo di compleanno per lei.
Odiava il suo contatto.
Lui cominciò a parlare. Lei vedeva la bocca muoversi ma si sforzava di escludere il suono della sua voce. Non voleva ascoltare. Non voleva rispondere. Lo sentì alzare il tono. Un I tocco di irritazione per la sua mancanza di reazione si era I insinuato nella voce dell'uomo. Stava parlando di reciproca fiducia. Dopo parecchi minuti tacque. Lei ignorò il suo sguardo. Poi lui alzò le spalle e cominciò a sistemare le cin­ghie. Le strinse un po' sul torace e si chinò su di lei.
Lei si voltò di scatto verso sinistra, più bruscamente che potè. Raccolse le ginocchia fin sotto il mento e poi scalciò forte contro la sua testa. Mirava al pomo d'Adamo e lo colpì in un punto sotto il mento, ma lui era preparato e si scostò, e il risultato fu solo un colpo leggero, appena percettibile. Cercò di scalciare di nuovo ma lui era già fuori portata.
Le sue gambe sprofondarono di nuovo nella branda.
Il lenzuolo pendeva sul pavimento. La camicia da notte era finita molto al di sopra dei fianchi.
Lui rimase immobile senza dire nulla. Poi le girò intorno e cominciò a legarle i piedi. Lei cercò di tirare le gambe ver­so di sé ma lui le afferrò una caviglia e le abbassò di forza il ginocchio con l'altra mano, bloccandole il piede con una cinghia. Poi fece il giro della branda e le legò anche l'altro piede.
Adesso era ridotta alla totale impotenza.
Raccolse il lenzuolo e la coprì. La guardò in silenzio per due minuti. Lei poteva sentire la sua eccitazione nella pe­nembra benché lui non ne facesse mostra in alcun modo. Di sicuro aveva un'erezione. Sapeva che avrebbe voluto al­lungare una mano e toccarla.
Poi lui si voltò e uscì chiudendosi la porta alle spalle. Sentì che chiudeva col catenaccio, cosa perfettamente inu­tile dal momento che non aveva nessuna possibilità di sle­garsi dalla branda.
Rimase diversi minuti con lo sguardo fisso sulla sottile striscia di luce sopra la porta. Poi cominciò a muoversi per cercare di capire quanto fossero strette le cinghie. Riuscì a piegare un po' le ginocchia ma quelle che le bloccavano i piedi opposero immediatamente resistenza. Si rilassò. Restò stesa assolutamente immobile, fissando nel nulla.
Aspettava. Intanto fantasticava di una tanica di benzina e di un fiammifero.
Lo vide imbevuto di benzina. Poteva percepire fasicamente la scatola dei fiammiferi nella propria mano. La scosse. Ne udì il tipico rumore. La aprì e scelse un fiammifero. Lo udì dire qualcosa ma non lo ascoltò. Vero vide l'espressione del suo vi­so, quando strusciò il fiammifero contro la superficie ruvida. Udì il rumore raspante della capocchia di zolfo. Suonava co­me un protratto rombo di tuono. Vide la fiamma scoccare.
Fece un sorriso duro e si rinfrancò.
In quella notte compiva tredici anni.

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