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“La ragazza che non era lei” di Tommaso Pincio: scagli una pietra chi ha trovato una soluzione

Creato il 04 dicembre 2015 da Alessiamocci

Laika Orbit si sveglia a Cloaca Maxima mentre la radio del karma profetizza polvere. Ieri, oggi, per gli anni a venire. Polvere nell’aria, nei polmoni, sul lenzuolo che condivide con l’uomo che parla senza vocali, che Laika non conosce, ma di cui sa comunque più cose di quante ne sappia su se stessa. Sa che è scappata, non sa da cosa. Sa che è libera, non sa da chi. Sa che la polvere è ovunque, forse anche nell’anima.

In un altro dovequando, un bambino senza nome nasce in un tripudio di colori. Sono gli anni ‘60, ogni rivoluzione è possibile, la libertà è nell’aria, ma tutto quello che il bambino senza nome vorrebbe è un po’ di ordine. Un nome, tanto per iniziare. Una madre che si comporti da noiosa madre e non da hippie. Una vita meno da capire e che ti capisce di più. Che decide per te, magari. Meno caos, insomma, e più ordine. La matematica esaudisce il suo desiderio, ma non gli risolve la vita.

Forse non c’è nulla da risolvere, che si mangi polvere o cartoni di LSD.

Se chiedeste in giro, rischiereste di sentirvi dire che La ragazza che non era lei di Tommaso Pincio (Einaudi, 2005/2010) è un romanzo sugli anni ‘60 – su quelli che sono stati, sui sogni realizzati e quelli infranti, su quello che ne è rimasto. E sarebbe vero. Ma La ragazza che non era lei appartiene anche agli anni in cui è stato concepito e scritto.

Vi ho trovato la scontentezza rabbiosa, il cinismo fatto status quo, di frammenti che hanno scandito quell’epoca dai contorni imprecisi che – forse – ci siamo appena lasciati alle spalle.

È quella dell’insoddisfazione di Fight Club, che pur di sfuggire al malessere di una vita con “un lavoro normale, un bel condominio, e un sacco di tempo libero – che negli anni ‘90 significava che nella tua vita c’era qualcosa di tremendamente sbagliato” (come ironizza ma non troppo lo Honest Trailer del film), ricostruisce un corpo paramilitare-terroristico il cui scopo è…

… qual era la scopo?

È l’epoca del monologo della Venticinquesima ora, quello che conoscete anche se non avete visto il film: “Sì, vaffanculo anche tu, tu e tutta questa merda di città e chi ci abita! In culo ai mendicanti che mi chiedono soldi e che mi arrivano alle spalle; in culo ai lavavetri che mi sporcano il vetro pulito della macchina; etc…” Se lo ricordate, è perché è stato condiviso da tutte le persone che volevano mandare affanculo…

… chi volevano mandare affanculo?

È sempre l’epoca degli Slipknot che parlavano di infilarsi le dita nelle orbite per distrarsi da un dolore maggiore, causato…

… causato da che cosa?

Il bambino senza nome, che diventerà un genio matematico chiamato Zxyz, sembra il prodotto dell’incontro tra queste due epoche. Sembra, in altre parole, la disillusione che ha seguito quella che, a posteriori, è stata liquidata come illusione. Lo era? Che cos’è stato, il ‘68? Un nobile tentativo troppo precoce per funzionare, o un ritiro solipsistico e autoreferenziale? Una generazione, o un fenomeno durato finché i giovani non sono invecchiati e non sono stati riassorbiti dalla società? Una scelta di vita, o un modo di passare il tempo? I colori sono svaniti, o non sono mai esistiti, e da sempre viviamo in un mondo coperto di polvere?

Della più recente epoca della disillusione La ragazza che non era lei ha la prosa. Tommaso Pincio ha lo stile di chi scrive come parla e parla con stile. Che ha tanto da dire, e sa come dirlo. E lo dice con il cinismo degli ex-idealisti.

Il mal de vivre dei suoi protagonisti è quello di non avere (più) un posto. Laika se l’è lasciato così tanto alle spalle che non riesce neanche più a ricordarlo. Da che cosa stava sfuggendo, quanto grande era il disagio che provava, per convincerla a esiliarsi nella terra della polvere? La voglia di fuggire, di libertà, deve essere stata palpabile, pulsante, un tempo.

Lo è stata per Kinky, che infatti è scappata di casa. Ma erano gli anni ‘60, e fuggire significava ritrovarsi con tutti gli altri fuggitivi. Da una piccola famiglia a una grande famiglia. La vita dei figli dei fiori ha dato un senso alla sua vita?

Prima di poterlo scoprire, la prospettiva passa a Zxyz, che sulle spiagge e nei prati hippie a casa non si sente. Il suo escapismo è matematico, non geografico, ma poco cambia: neanche l’astratto mondo dei numeri, alla lunga, lo fa approdare a una spiaggia che senta come sua.

Tutto si conclude su un’isola, oggi (ossia, ai tempi dell’uscita del romanzo), in cui si fanno i conti con la storia.

Che cosa è rimasto degli, che cosa è cambiato dagli, anni ‘60?

Oltre a una prosa coinvolgente, Pincio ha dalla sua la prospettiva dall’alto dei grandi romanzieri.

Lo paragonerei, un po’ a sproposito, a Hugo. Se il secondo è stato capace, nella propria epoca, di guardare il grande e il piccolo di un’intera società, dalla miseria alla nobiltà, Pincio sa fare qualcosa di simile con l’oggi, e alla maniera dell’oggi.

Ci fa viaggiare per il tempo e per il vasto mondo globalizzato cogliendo quei dettagli che, se ben selezionati, da soli sanno dare l’idea di un intero contesto. La bibbia nei comodini dei motels statunitensi, i discorsi tenaci e cocciuti tra hippies, i presupposti della matematica, il peperoncino ovunque a Bangkok. Quei luoghi non per turisti che rendono un viaggio meno patinato, ma più frammentario, come una vita che non si può esaurire dandole un solo senso.

Viene un po’ di voglia di festeggiare, nonostante tutto, alla fine del libro – su quell’isola che è tanto vicina a noi quanto invisibile agli occhi.

Tommaso Pincio (Roma, 1963) è lo pseudonimo di Marco Colapietro. Formato all’Accademia delle Belle Arti, ha lavorato nel mondo dell’arte in Italia e negli Stati Uniti. Ha esordito nel 1999 con M. Il suo ultimo romanzo, Panorama, è uscito nel 2015.

Written by Serena Bertogliatti

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