Tutto parte da un dato ormai certo: la capitolazione delle repubbliche di Donetsk e Luhansk, che sembrava ormai imminente ad inizio di agosto, è avvenuta grazie ad un aiuto militare, non ancora ben quantificabile nei modi, di Mosca. Non solo: ora sono le armate di Kiev ad essere in difficoltà, tanto che lo stesso Putin ha chiesto ai miliziani secessionisti di aprire un corridoio umanitario per consentire ai soldati ucraini di ripiegare.
Il precipitare della situazione ha spinto il presidente ucraino Poroshenko a chiedere, in modo più insistente che in passato, che il suo Paese venga subito ammesso nella Nato, ma la linea dell’Alleanza Atlantica, espressa dal segretario generale Rasmussen, è solo quella di militarizzare il confine Est, quello che va dalla Lituania fino alla Bulgaria, contro la minaccia militare russa. Una linea sposata da Obama (colpire con le sanzioni, non con le armi) e dall’Unione Europea (nessun sostegno militare a Kiev, solo ritorsioni economiche contro Mosca).
Dunque, la realpolitik sta prendendo il sopravvento nelle decisioni dei policy makers. In modo defilato, ma ciò sta avvenendo. L’azione più diretta dei russi nella crisi sembra ormai reso evidente che le regioni ucraine dell’Est non rientrerà tanto facilmente sotto il controllo di Kiev, ora che i secessionisti sanno di avere le spalle protette da Mosca. Putin oggi ha parlato dell’inevitabilità di costituire uno stato autonomo nell’Ucraina orientale, frasi che poi il fidato portavoce Peskov ha ridimensionato, ribadendo che il Cremlino vuole solo che i negoziati di pace giungano ad un risultato rapido e tangibile nel rispetto dei diritti della minoranza russofona. Ma il leader russo non è tipo da rilasciare affermazioni prive di significato: quelle parole erano un modo chiaro di “segnare il territorio”. E’ difficile pensare che Mosca si sia sporcata le mani in Ucraina orientale, mettendo a repentaglio le sue preziose relazioni commerciali con l’Ue, solo per accelerare il processo di pace: ciò che sembra più probabile è che il Cremlino voglia negoziare in prima persona il futuro della Novorossija, che ad oggi è sempre più distante da Kiev e sempre più “satellite” di Mosca.
La crisi tra Russia e Ucraina sta assumendo i contorni di quella del 2008 tra la Russia e la Georgia, quando oggetto del contendere erano le repubbliche russofone di Abkhazia e Ossezia del Sud, che nell’agosto di quell’anno furono attaccate dai soldati di Tbilisi a cui Mosca rispose con un intervento militare che sfociò nell’invasione della Georgia stessa. Anche allora l’Occidente protestò vibratamente contro l’azione russa, ma non ritenne opportuno deteriorare i propri rapporti con Mosca per due lembi di territorio caucasico: tutto si concluse con la proclamazione dell’indipendenza delle due repubbliche, riconosciute però solo da una manciata di Stati. Oggi lo scenario ucraino potrebbe essere identico, con un’analoga soluzione: secessione non riconosciuta da Usa e Ue delle regioni orientali, ma accettata nel nome di un sano pragmatismo, come unica via per fermare una pericolosa escalation militare e i suoi contraccolpi economici.
Un modus operandi che tra l’altro non è nemmeno inedito: pochi mesi prima del suo famoso “Ich bin ein Berliner”, Kennedy, che non aveva alcuna intenzione di fare una guerra a difesa di Berlino Ovest, commentò la notizia che i sovietici e i tedeschi della DDR avevano isolato Berlino Est con la costruzione del Muro con un laconico “non è la miglior soluzione, ma comunque una soluzione per evitare una guerra nucleare contro l’Urss”. La realpolitik può rivelarsi cinica, ma talvolta anche utile.