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La realtà? Più complicata di un puzzle

Creato il 15 febbraio 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

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imagesdi Michele Marsonet. E’ un dato di fatto che il nostro rapporto primario con la realtà è sempre mediato dall’attività psichica e linguistica. Anche quando pensiamo a una realtà indipendente dalla dimensione del mentale, il pensiero svolge la funzione di farci immaginare tale realtà autonoma, e il linguaggio è a sua volta indispensabile quando vogliamo parlarne per comunicare con gli altri. Ne consegue che non siamo in grado di elaborare dei concetti intorno a qualsiasi cosa senza usare qualche tipo di schema.

Dunque, pensiero e linguaggio sono indispensabili all’ontologia: per quanto riguarda gli esseri umani, il reale è inscindibile dal piano mentale e da quello linguistico. In altre parole il nostro accesso alla realtà ha sempre un carattere di mediatezza, e ciò significa che il binomio pensiero-realtà rappresenta l’inevitabile punto di partenza per tutti coloro che intendano appurare qual è la struttura del reale. Seguendo fino in fondo questo sentiero si può concludere che tra ontologia da un lato ed epistemologia (intesa come teoria della conoscenza) dall’altro non si può mai stabilire una linea di confine netta. Per l’uomo la realtà è sempre una realtà pensata e conosciuta o, il che è in fondo lo stesso, una realtà di cui si può parlare.


Ecco perché lo iato tra ciò che vi è e ciò che noi pensiamo o crediamo vi sia resta difficilmente superabile. Anche ammettendo una realtà indipendente da qualsiasi schema concettuale, la sua esistenza è pur sempre postulata dal punto di vista di colui che la pensa e ne parla. Sembra allora destinato a non scomparire il classico – pur se formulato in termini di oggi – problema dei rapporti tra la realtà in quanto tale e la realtà-per-noi. E quest’ultima è pur sempre l’unico tipo di realtà cui abbiamo accesso diretto. Il problema principale, se continuiamo a seguire questa linea di ragionamento, è “come” conciliare le due realtà appena menzionate. In altri termini, l’accordo presuppone la disponibilità di entrambi i tipi.

Pensiamo, per esempio, a cosa succede quando costruiamo un puzzle. Supponendo che i nostri concetti siano i pezzi del puzzle, ciò che possiamo fare è metterli assieme individuando i tasselli che di volta in volta sono necessari alla riproduzione adeguata del modello che abbiamo di fronte agli occhi. Ma – lo si noti – nel caso del gioco il modello o obiettivo finale da raggiungere è effettivamente disponibile in quanto riprodotto sulla scatola che contiene i pezzi: è relativamente facile completare il gioco tenendolo presente. E, in caso di errore, è altrettanto facile rimediare andando a guardare l’originale. Nulla di simile è possibile nel nostro gioco ontologico, dal momento che l’originale, la realtà indipendente da ogni schema, non la conosciamo perfettamente. Tutto ciò che possiamo fare è sperare nella buona sorte, augurandoci che i pezzi via via trovati siano proprio quelli che ci servono per giungere a conseguire il risultato. Non possiamo insomma pensare la realtà prescindendo da qualsiasi raffigurazione, e ciò significa che non siamo in grado di concettualizzare la realtà “prima”, e di misurare “poi”, i concetti sul metro della realtà stessa.

E’, questo, il motivo principale che spinge a sottolineare l’inutilità di ogni tentativo volto a raffigurare una realtà che trascende dal punto di vista ontologico il nostro pensiero. Il “prima” e il “dopo” non sono in questo caso possibili: il raffronto viene fatto nell’atto stesso della concettualizzazione, e quest’ultima non è separabile dalla realtà. Occorre quindi abbandonare l’immagine del puzzle e passare a quella di un gioco come il Lego. In questo caso abbiamo sì un modello sulla scatola, ma non siamo obbligati a rispettarlo per ottenere dei buoni risultati. Anche se sulla confezione troviamo l’immagine di una casa, nulla ci impedisce, se abbiamo fantasia e siamo abbastanza abili, di costruire una nave o un aeroplano. Non è più il modello a contare, ma ciò che abbiamo in mente e il grado di coerenza tra progetto iniziale e risultato finale.

La questione del controllo, vale a dire la coerenza tra progetto e risultato, svolge un ruolo centrale. Gli schemi concettuali, infatti, non sono esattamente determinabili come i puzzle, ma subiscono in continuazione mutamenti anche rilevanti, mentre concetti nuovi sostituiscono quelli più vecchi. La realtà indipendente dalla mente che desideriamo raggiungere muta essa stessa, soprattutto in funzione delle varie immagini del mondo che la scienza ci propone nel corso della sua storia. Dovremmo pertanto produrre una raffigurazione complessiva senza conoscere la sua struttura, e nello stesso tempo dar vita a nuovi concetti essendo ben sicuri che essi sostituiscano in modo adeguato quelli vecchi.

Di qui a concludere che tale raffigurazione è semplicemente una creazione della nostra mente il passo è possibile (anche se non necessario) e, ovviamente, il lettore accorto non stenterà a veder emergere in questo scenario la sagoma della nave concettuale postulata da Otto Neurath, che si può riparare soltanto in mare aperto e pezzo dopo pezzo, senza la speranza di poter mai giungere a un approdo definitivo.

Featured image, Otto Neurath.

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