La Recherche di Proust e il ricordo della Madeleine (il dolcetto)

Da Patiba @patiba1

La madeleine o petite madeleine è un dolce tipico del comune di Commercy, nel nord-est della Francia, e in seguito di tutta la nazione in genere. Le madeleine sono dei piccoli dolcetti soffici con una particolare forma a conchiglia, derivata dallo stampo in cui vengono cotte. Il sapore è simile a quello del plum cake, sebbene la consistenza sia leggermente diversa e il gusto sia più delicato, con un aroma di burro e limone più pronunciato. Oltre al classico stampo, occorrono pochi strumenti per fare delle madeleine. Le ricette tradizionali in genere includono gli ingredienti di base per qualunque dolce, ovvero farina, uova, burro, zucchero e spesso vaniglia e nocciole finemente tritate.

Alcune fonti, incluso il New Oxford American Dictionary, riportano che le madeleines sono chiamate così in onore di Madeleine Paulmier, una pasticciera del XIX secolo. Altre fonti riportano Madeleine Paulmier come una cuoca vissuta nel XVIII secolo che aveva lavorato per Stanisław Leszczyński, il cui genero, Luigi XV di Francia, scelse il nome dei dolcetti in onore a lei.
Le madeleine, fuori dal territorio francese, sono forse più famose per l’associazione con l’opera di Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto¹ (À la recherche du temps perdu), nella quale il narratore mangia una petite madeleine (o madeleinette) e questa risveglia in lui dei ricordi della sua infanzia, divenendo in questo modo il catalizzatore dell’opera stessa.

La ricetta

Ingredienti per 25 dolcetti
2 uovo, 150 gr. di zucchero, 150 gr. di farina, 125 gr. di burro morbido, 1 bustina di zucchero a velo, sale, mezzo cucchiaino di lievito, qualche goccia di aroma fior d’ arancio.

Tempo di reparazione: 20 minuti – Tempo di cottura: 10 minuti

 .

Preparazione
Sbattere l’uovo intero insieme allo zucchero, al sale e allo zucchero a velo. Incorporare la farina all’impasto, e dopo averlo lavorato, aggiungere anche il burro. Aggiungere il lievito e mescolare. Mettere il composto nello stampo per madeleine e infornare finché non dorano.

Marcel Proust: Alla ricerca del tempo perduto¹ (À la recherche du temps perdu), I capitolo “Combray” del primo libro “La strada di Swann”

¹Alla ricerca del tempo perduto (À la recherche du temps perdu) è l’opera più importante di Marcel Proust, scritta tra il 1909 e il 1922, pubblicata in sette volumi tra il 1913 e il 1927. Si colloca tra i massimi capolavori della letteratura universale per vari motivi, ma soprattutto per l’ambizione letteraria e filosofica che l’autore ha riposto in quest’opera (intuire di cosa il tempo è composto per cercare di fuggire il suo corso). In essa è racchiusa tutta l’evoluzione del pensiero dell’artista. Tra i moltissimi temi trattati spicca il ritrovamento del tempo perduto, del ricordo, della rievocazione malinconica del passato perduto. L’opera per la sua struttura compositiva è stata definita L’oeuvre cathédrale.

Il titolo dell’opera indica già al lettore qual è il nucleo duro dell’opera proustiana: la ricerca di un tempo perduto. Che sia un tempo interiore o un tempo esteriore, è un tempo che si è perduto; esso è, quindi, legato al passato, ma al contempo è un tempo verso il quale tende il presente.

La ricerca di Proust è anche una speranza e una promessa di felicità: ritrovare il tempo non è impossibile, a patto che il mondo ricreato sia un mondo letterario, un mondo interiore, mistico, costruito su questo gioco di memoria e tempo. La struttura si basa sulla contrapposizione Tempo perduto-Tempo ritrovato, attraverso la memoria involontaria che è il ricordo improvviso e spontaneo di una sensazione provata nel passato, suscitata dalla stessa sensazione nel presente.

Marcel Proust
Madeleinettes

“Già da molti anni di Combray tutto ciò che non era il teatro o il dramma del coricarmi nonesisteva più per me, quando in una giornata d’inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po’ di tè. Rifiutai dapprima, e poi, non so perché, mutai d’avviso. Ella mandò a prendere una di quelle focacce pienotte e corte chiamate «maddalenine», che paiono aver avuto come stampo la valva scanalata d’una conchiglia.

Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d’un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «maddalena». Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m’aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M’aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l’amore, colmandomi d’un’essenza preziosa: o meglio quest’essenza non era in me. era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch’era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla? Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo dal quale ricevo meno che dal secondo. E’ tempo ch’io mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire. E chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Essa l’ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa testimonianza che io sono incapace d’interpretare e che voglio almeno poterle donare di nuovo e ritrovare a mia disposizione intatta, fra poco, per.una spiegazione decisiva. Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a esso trovare la verità. Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta l’animo nostro si sente sorpassato da sé medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? non soltanto: creare. Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce. E ricomincio a domandarmi che mai potesse essere quello stato sconosciuto, che non portava con sé alcuna prova logica, ma l’evidenza della sua felicità, della sua realtà dinanzi alla quale ogni altra svaniva. Voglio provarvi a farlo riapparire. Indietreggio col pensiero al momento in cui ho bevuto il primo sorso di tè. Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova luce. Chiedo al mio animo ancora uno sforzo, gli chiedo di ricondurmi di nuovo la sensazione che fugge. E perché niente spezzi l’impeto con cui tenterà di riafferrarla, allontano ogni ostacolo, ogni pensiero estraneo, mi difendo l’udito e l’attenzione dai rumori della stanza accanto. Ma, sentendo come l’animo mio si stanchi senza successo, lo costringo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a ripigliar vigore prima d’un tentativo supremo. Poi, una seconda volta, gli faccio intorno il vuoto; di nuovo gli metto di fronte il sapore ancora recente di quel primo sorso, e sento in me trasalire qualcosa che si sposta e che vorrebbe alzarsi, qualcosa che si fosse come disancorata, a una grande profondità, non so che sia, ma sale adagio adagio; sento la resistenza, e odo il rumore delle distanze traversate. Certo, ciò che palpita così in fondo a me dev’essere l’immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si agita in modo troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde l’inafferrabile turbinio dei colori smossi; ma non so distinguere la forma, né chiederle, come al solo interprete possibile, di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, chiederle di rivelarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratti. Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l’attimo antico che l’attrazione d’un attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo di me stesso? Non so. Adesso non sento più nulla, s’è fermato, è ridisceso forse; chi sa se risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci volte. E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, m’ha consigliato di lasciar stare, di bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani, che si possono ripercorrere senza fatica. E ad un tratto il ricordo m’è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di «maddalena» che la domenica mattina a Combray (giacché quel giorno non uscivo prima della messa ), quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio. La vista della focaccia, prima d’assaggiarla, non m’aveva ricordato niente; forse perché, avendone viste spesso, senza mangiarle, sui vassoi dei pasticcieri, la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri giorni più recenti; forse perché di quei ricordi così a lungo abbandonati fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s’era disgregato; le forme – anche quella della conchiglietta di pasta – così grassamente sensuale sotto la sua veste a pieghe severa e devota – erano abolite, o, sonnacchiose, avevano perduto la forza d’espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la coscienza. Ma, quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo. E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di«maddalena» inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto più tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo era bello. E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d’acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti,, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.”

Marcel Proust: Alla ricerca del tempo perduto¹ (À la recherche du temps perdu), I capitolo “Combray” del primo libro “La strada di Swann”

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