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La reciprocità: il sale della vita

Creato il 20 gennaio 2011 da Bruno Corino @CorinoBruno

Risposta di Silver Silvan:
Sinceramente, auspico che l'imprevedibilità continui a regnare sovrana nei rapporti umani: l'alternativa è una monotonia di cui si fa volentieri a meno. Credo che la strategia abbia un senso in virtù di un obiettivo finale: voglio mettermi in luce per ottenere qualcosa? Ma se si parla di una banale interazione tra due persone fondata sulla simpatia, ad esempio, che razza di strategia dovrei adottare ma, soprattutto, con quale finalità se non quella di mantenere quel rapporto perché mi gratifica? In quell'ambito come si fa a parlare di affermazione del sé? Boh, mi sconcerta questo vedere le relazioni umane all'insegna di qualcosa che ho sempre considerato negativamente. Termini come sopraffazione, sottomissione, prevaricazione, obbedienza, competizione mi fanno drizzare i capelli in testa da sempre: io esigo il diritto ad esistere, anche in senso metaforico, che compete a chiunque sulla faccia della terra, almeno in teoria; lo difendo a modo mio quando viene minacciato, ma di qui ad usare rapporti di forza per avere la meglio su qualcuno lo trovo da frustrati. Mi viene in mente La carriola di Pirandello, insomma. Ieri, dal notaio ho assistito all'ennesima telefonata arrogante di una zelante impiegata che, per mettersi in luce, bacchettava la sottoposta con tono acido e ho pensato a quanto fosse ridicola, meschinità del gesto a parte: spero che la sottoposta la boicotti quotidianamente e le faccia venire il fegato grosso più volte al giorno. Credo che improntare le relazioni umane in base a criteri quali la sottomissione e la prevaricazione comporti solo la distruzione di qualsiasi rapporto, nonché a guastarsi il sangue in due. Per altro senza esito, spesso e volentieri: nel mio caso, almeno, cercare di obbligarmi a fare qualcosa è il metodo migliore per non riuscirci; mi scatta l'istinto di sopravvivenza. Per quel che mi riguarda, poi, detesto obbligare qualcuno a fare qualsiasi cosa controvoglia: è il miglior sistema per farsi detestare. Le persone danno il meglio di se stesse quando non sono forzate e si sentono libere di agire come preferiscono. Lo so da sempre: e ho scoperto che questo attira i prepotenti come le mosche; i prepotenti adorano costringere gli altri a cambiare idea con la forza; a costo di usare l'inganno, i soldi, l'autorità, i colpi bassi. Devo far nomi?
Ps. Dimenticavo: non so giocare a scacchi e mi piace giocare per il gusto di giocare; a volte vinco, a volte perdo; quelli che vogliono vincere sempre mi stanno sulle balle per principio. E li considero dei veri perdenti.
Ah, la complicità non è altro che la sintonia sulla base della presupposizione, fondata o meno, di avere qualcosa in comune. Nient'altro.
Risposta di Oude:
Caro Bruno,
anzitutto grazie per la tua cortesia di dare non solo voce ma visibilità ai tuoi “corrispondenti”. L’esposizione chiara, convincente, meravigliosamente sintetica dei tuoi “intenti” nel proporre la tua teoria ha dissolto le mie perplessità circa l’utilità “pratica” della filosofia. Come avrai certamente capito con il tuo formidabile intuito (che ti fa “indovinare” anche il sesso dell’interlocutore di turno) alla tua preparazione filosofica o “idealistica” spesso contrappongo la mia biologica o ”materialistica”, ma in questo caso mi hai fatto capire che anche la tua Etoanalisi non invoca “il mondo delle idee” ma “raccoglie dati” applicando l’osservazione dei fenomeni umani come l’anatomopatologo osserva un preparato al microscopio cercando delle “somiglianze” con immagini codificate e testate, cioè anche tu non dai “giudizi di merito” aprioristici sulle situazioni che analizzi ma cerchi di trovare le “variabili” che indicano uno scostamento dal “noto” secondo il sano principio che vuole che “riconosciamo solo quello che conosciamo”. Ottimo lavoro il tuo che merita tutti i miei complimenti e l’augurio che possa essere utile a capirci un po’ di più.
Risposta di Bruno Corino:
In questi giorni, sto mettendo “ordine” tra i miei appunti, che ho accumulato nel corso di otto anni. Si tratta di quattro grosse agende, due quaderni, tre blocchi notes. E tanti fogli sparsi raccolti in una cartella. Poi ho circa cinquecento pagine stampate (quindi che ho scritto sul pc). Inoltre, ci sono tutti i post che vado spargendo in questo blog. Vorrei effettivamente arrivare a un lavoro concluso, mettere un punto e poi magari approfondire in un secondo tempo questo o quello aspetto. Se non arrivo mai a una conclusione è per due motivi: il primo è che non ho nessun vincolo editoriale con alcuno, cioè non ho nessuna scadenza da rispettare. Il secondo è che la mia ricerca è una ricerca aperta per costituzione fisica. Mi capita infatti che ogniqualvolta emerga un problema, un aspetto inatteso nel corso di questa ricerca, sono “costretto” a tornare indietro e a riprendere tutta la rete concettuale che ho elaborato sino a quel punto. Mi sta capitando anche in questi ultimi tempi, grazie soprattutto a questi scambi di idee che ho con due “visitatori” eccezionali. Non si tratta soltanto di valutare gli stimoli che ricevo e che mi sollecitano a mettere sempre più a fuoco la mia teoria. Ma soprattutto mi hanno fatto capire a quali e a quanti fraintendimenti la mia riflessione può dare adito. Quando, eventualmente, mi deciderò a circoscrivere questa teoria, dovrò tener conto di ridurre il più possibile i fraintendimenti o i malintesi (parlo di riduzione, e non di cancellazione, perché i malintesi – così come gli imprevisti o le deviazioni – sono fisiologici, fanno appunto parte della vita, o meglio sono «forme di vita», senza le quali la vita stessa non avrebbe modo di svilupparsi e di cambiare forme, di assumere quello aspetto multiforme che, a mio avviso, costituisce il suo fascino e la sua bellezza. Non a caso temo sempre quei modi di fare che spingono ad assumere aspetti uniformi – alle proprie aspettative, s’intende – che aspirano a costruire quegli stati di sicurezza in cui la devianza – il dissenso o la diversità – l’imprevedibilità ma anche la creatività – originata proprio dal malinteso o equivoco – siano del tutto espulsi, e ritenuti come sintomi o portatori di “disordine” all’interno di un ordine securizzato). E d’altro canto, le stesse cose che sto scrivendo lo dimostra: se tra me e i miei interlocutori l’intesa fosse perfetta, se non ci fossero fraintendimenti, se tutto fosse chiaro e lampante come una fonte d’acqua cristallina, non vedrei neanche il bisogno di chiarire, di spiegare, di tornare sugli stessi argomenti da un punto di vista diverso. Quindi, figuriamoci se è mia intenzione eliminare dal panorama dei rapporti umani il ruolo della ambivalenza (o malinteso), dell’imprevedibilità o della diversità. Dal mio punto di vista chi si pone in questa ottica, dimostra soltanto di voler «disseccare» la fonte della linfa vitale, quella che rende qualsiasi rapporto interumano (ma non solo) interessante, attraente, ma anche “impressionante”, cioè capace di lasciare un’impronta mnestica. Anzi, a me piace mettere il più possibile in evidenza il ruolo che queste categorie hanno nei rapporti umani, far capire la loro importanza per la vitalità di una relazione, per il suo sviluppo, per la sua crescita. Addirittura sono arrivato alla conclusione che queste dinamiche sono all’origine delle culture umane, della loro creatività, della loro capacità di variare ma anche di “stabilizzarsi”. Non a caso infatti ho assunto la “reciprocità” come fondamento indimostrabile e indimostrato non solo dei rapporti umani ma dell’essere in generale, ossia la dualità, ambivalenza, la multilateralità. E non a caso nelle mie diagnosi sui mali che affliggono i rapporti umani ho individuato nelle unilateralità, nelle omogeneità, nei conformismi imposti ed assoluti, la fonte di ogni distorsione, dei conflitti, delle tensioni, ecc. Ma come al solito non vorrei neanche che si prendessero queste mie parole in senso assoluto: i conflitti, le tensioni, ecc. fanno anch’essi parte della vita, possono cioè assolvere una funzione positiva. Ad esempio, possono servire a saldare meglio i rapporti umani, quando si presentano e sono reciprocamente risolti, o possono servire a portare a delle “rotture” salutari, a rompere un legame la cui continuità danneggiava entrambi gli agenti. A far prendere all’esistenza direzioni diverse, imprevedibili o inattese. La reciprocità: è questa la mia chiave di lettura. In una sequenza di scambi interattivi, ad esempio, i momenti di prevaricazione/sottomissione si possono alternare: una volta si è incudine, ma in un’altra occasione si è martello. Le posizioni si alternano, si scambiano. Così, in una ambito sono io a guidare, in un altro mi lascio guidare, e così via. Sono effettivamente rapporti “normali”. Non lo sono più quando sono costretto a fare sempre da incudine, e quando, non appena accenno a un moto di ribellione, l’altro mette in atto le sue minacce, comincia a trattarmi come un ingrato, a scaricare su di me tutta la sua rabbia, a trattarmi come una nullità, ad “annichilirmi”, quando si rifiuta di credere che anch’io ho un mio particolare punto di vista, una vita autonoma, ecc. ecc. Lo fa davvero per mettersi in luce al fine di ottenere qualcosa? È un frustrato? Può essere. Ma queste sono personali “valutazioni” che nulla tolgono e nulla aggiungono allo sviluppo delle dinamiche. Odio prevaricare, odio competere? Cosa cambia questo mio atteggiamento se poi non so come “difendermi” da chi mi prevarica, da chi ha bisogno di dimostrarmi a ogni piè sospinto che lui è migliore di me? Me ne esco fuori – nell’intimo – dicendo a me stesso: “Poveretto, è solo un frustrato!”; quasi che voglia soprattutto convincere me stesso di essergli – nonostante i soprusi e gli abusi subiti – moralmente o intellettualmente superiore? Anche questa non può essere giudicata una “strategia” perdente, un modo per autoconsolarmi? O, invece, devo prendere consapevolezza di essere in un rapporto di forza a me sfavorevole, e tentare in qualche di superare questo svantaggio? I rapporti di forza possono essere usati sia per sopraffare che per non lasciarsi sopraffare: insomma, in ogni rapporto non bisogna scorgere solo un aspetto, ma anche il suo contrario. Vedere appunto il mondo e le cose nella loro perenne reciprocità!
Ps. a Oude: grazie delle tue parole.


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