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La regola dei ciarlatani e dei ladri

Creato il 04 ottobre 2011 da Speradisole

LA CORNACCHIA E L’AGNELLINO

LA REGOLA DEI CIARLATANI E DEI LADRIUn bel mattino, mentre volava in cerca di qualcosa da mangiare, la cornacchia avvistò un agnellino appena nato che poppava. “Pecore” pensò tra sé e sé. “Cosa non darei per fare anch’io quella vita. La madre scodella il piccolo, dopodiché se ne sta lì a far niente mentre quello si nutre da solo. Nessun bisogno di costruire il nido, né di passare ogni stramaledetto istante della vita a cercarsi del cibo che comunque non basta mai”.

Gli uccelli, oltretutto, dovevano studiare a casa, mica come le pecore e le mucche, che le cose se le insegnano a vicenda. “E’ compito della collettività” amavano ripetere, anche se in fin dei conti non è che da imparare ci fosse granché. Abbassi la testa, e il cibo entra. Alzi la coda, e il cibo esce. Come si faceva a mangiare, l’avevano imparato. Il resto, lasciamo stare. Imbrattate di cacca dalla testa ai piedi, ecco come andavano in giro. Dove cazzo era la collettività, quando c’era bisogno di pulirsi? Ecco cos’avrebbe voluto chiedergli la cornacchia. Ah, e poi si lamentavano degli insetti – le mosche che gli si posavano sul muso dal mattino alla sera – ma la sai l’ultima? Le mosche vanno dove c’è la cacca. Per cui, se non vuoi che ti ricoprano la fronte, pulisciti! Dio, quant’erano scemi i ruminanti. Anche se non sempre era un vantaggio.

LA REGOLA DEI CIARLATANI E DEI LADRI

Dopo averli sorvolati in tondo per un po’, la cornacchia si posò sul prato, fingendo di beccare qualcosa in mezzo all’erba. La vecchia pecora le lanciò una rapida occhiata, dopodiché tornò a concentrarsi sul neonato che si stava facendo fare il primo e probabilmente unico bagno della sua vita. “Ma che carino” gracchiò la cornacchia. “Maschietto o femminuccia?”.

La pecora sospirò come fanno tutti i genitori convinti che il sesso del loro figlio sia scontato. “Maschio. Il secondo”. Di solito era più socievole, ma gli uccelli avevano qualcosa che la indisponeva. Forse il fatto che erano inutili, pensò.

“Be’, pare proprio un agnellino, se mi passa il gioco di parole” disse la cornacchia, saltellando un po’ più vicino. “E mi dica, parto naturale?”.

La pecora avrebbe voluto mantenere il distacco, ma di fronte a quell’argomento – ovvero se stessa – non riuscì a trattenersi più di un secondo. “Sì, sì” disse. “Naturale al cento per cento, ma sa,  io preferisco. Così è un’esperienza  più vera. Non so se mi spiego”.

La cornacchia annuì. “E la placenta?”.

“Ah” disse la  pecora  “quella l’ho mangiata. Un sapore tremendo, ma mi sembrava importante, per … come dire … rafforzare il legame”.

“Assolutamente” concordò la cornacchia, abbassando la testa per nascondere tra l’erba il suo fastidio. Nulla la irritava di più di quei vegetariani pieni di sé che la carne ogni tanto la mangiavano eccome, ma poi stabilivano che quelle poche volte non facevano testo.  “E immagino che si sia mangiato anche il cordone ombelicale?”.

“Uh, non mi faccia pensare” disse la pecora, simulando un conato. “Oggigiorno c’è chi la seppellisce, con tanto di piccola cerimonia, ma pare che poi i cani vadano a dissotterrarlo, il che guasta un po’ l’aspetto sacro, non le pare? Per carità, non mi fraintenda, non che io sia una fanatica o chissà che. Non mi vedrà mai posare in un presepe vivente, per intenderci. Però ritengo di avere una spiritualità molto sviluppata”.

“Il che, a mio avviso, è molto meglio che essere – tra virgolette – “religiosi” – disse la cornacchia, avvicinandosi di un altro passettino. “Invece di seguire ciecamente il branco, proprio come –senza offesa – una pecorona, ha capito cos’era giusto per lei e tutto il resto l’ha lasciato perdere. Prendiamo la rasatura, per esempio. Certe religioni la vietano. Ora, può andare bene per un cavallo, per una gallina o che so io, ma lei, francamente, come farebbe?”.

“Rabbrividisco al pensiero”. La pecora ridacchiò. “Specie col caldo che fa d’estate!”.

“Appunto” confermò la cornacchia. “Perché prendere il pacchetto completo, se poi deve diventare un peso? Ho sentito di un’altra religione che vieta di toccare i maiali”.

“Dove si firma?” ribatté la pecora, ridendo di nuovo e scoprendo i grossi denti dritti.

“Piacerebbe anche a me, a dire il vero” confidò la cornacchia. “Ma mettiamo che lei sia una scrofa e il suo piccolo debba mangiare. Cosa fa? Lo manda da una  mucca? Lo lascia morire di fame?”.

“Capisco cosa intende” disse la pecora.

“Ecco perché bisogna saper scegliere, scremare” proseguì la cornacchia. “Un po’ di questo e un po’ di quello. Io, per esempio, ultimamente alla ricetta ho aggiunto anche un po’ di meditazione orientale. Ogni mattina chiudo gli occhi e per una decina di minuti lascio fuori tutto quanto. Il rumore, la confusione … via tutto”.

La pecora si voltò verso il fondo del campo, scrutando con gli occhi socchiusi il ruscello e il filare di pioppi che ondeggiavano pigri sull’altra riva. “Da questa parti di confusione ce n’è poca” disse. “E’ un posto tranquillo, paragonato a tanti altri”.

“Sarà che ci ha fatto l’abitudine” disse la cornacchia. “Le altre pecore, i grilli, e compagnia bella … E se suo figlio è come il mio, scommetto che quando vuole il bis può scatenare il finimondo”.

“Altroché”.

“Non sembra, ma nel suo insieme, il rumore di una fattoria può davvero affaticare i nervi. E’ a questo che serve la meditazione. E’ un modo per dire: “Vattene, mondo. Ora per un po’ mi tratto bene”.

“Non male, come idea “ disse la pecora, abbassando lo sguardo sul figlio, che sedeva con la schiena dritta sulle zampe posteriori ripiegate e gli occhi incollati ai suoi capezzoli. “Ma mi dica, è una cosa complicata, questa … com’è che l’ha chiamata?”

“Meditazione” disse la cornacchia. “E, per rispondere alla sua domanda, non c’è niente di più facile. La prima cosa da fare è chiudere gli occhi, ma proprio completamente, perché sa, se uno sbircia fa entrare le energie negative, che possono dare grossi problemi di digestione”.

Le pecora eseguì alla lettera.

“Per il resto, non ci sono regole fisse. Gli orientali amano usare quelli che loro chiamano “mantra”, spiegò la cornacchia. “La stessa frase ripetuta all’infinito, finché davvero non ti entra nello spirito. Detto così sembra noioso, mentre invece funziona benissimo”.

“Ma una frase di che genere?” domandò la pecora. “Tipo una poesia?”.

“Immagino vada bene anche quella” disse la cornacchia, “Il mio mantra è un’affermazione. Diciamo. Una cosa un po’ personale, ma se vuole è liberissima di usarla, almeno finché non gliene verrà in mente una sua”,

“Non è sconcia vero? Sa con mio figlio qui …”.

“Ma si figuri se è sconcia!”. Rispose la cornacchia. “Mi meraviglio che me lo chieda”.

“Non volevo offenderla” si giustificò la pecora. “Ma sa, in giro si sentono di quelle cose …”.

“E questo che significa? Che le cornacchie sono tutte sporcaccione? Che abbiamo in testa una cosa sola?”

“Volevo dire che mi piacerebbe prendere in prestito il suo mantra” disse la pecora. “Sempre se è ancora disponibile”.

La cornacchia guardò l’agnellino, poi sua madre, meravigliandosi di come una creatura così graziosa, crescendo, potesse  diventare tanto informe e brutta. Agli uccelli succedeva l’esatto contrario, pensò. Niente era più repellente di un uccellino appena nato, ma d’altronde a che serve la bellezza, quando si è troppo giovani e stupidi per sfruttarla? Saper tenere gli occhi chiusi sarebbe risultato utile, alla pecora, specie durante l’accoppiamento. Visualizzò un montone che le spingeva contro il sedere un paio di zampette esili e malandate, poi scrollò la testa per scacciare l’immagine. “Glielo lascio usare il mio mantra, ma solo finché non ne trova uno suo” disse poi, chinandosi verso la pecora e sussurrandoglielo  nell’orecchio.  “Adesso voglio che abbassi la testa e ripeta questa frase venti volte. No, anzi, meglio trenta, con tutto quel che ha passato”.

La pecora ubbidì, e mentre parlottava tra sé e sé con il muso chino tra l’erba umida, la cornacchia le zampettò accanto, e con il becco cavò gli occhi all’agnellino appena nato. Uno lo mangiò subito, perché era delizioso, l’altro lo pizzicò nel becco e volò a portarlo a quegli ingrati dei suoi figli.

Quanto alla pecora, rimase con gli occhi chiusi, immersa nella meditazione, ripetendo la regola di ladri, ciarlatani e autoindulgenti di tutto il mondo: “Quel che va fatto, va fatto” diceva “quel che va fatto, va fatto”.

(David Sedaris – “Bestiole e bestiacce”)



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