L’archeologo Giovanni Lilliu, scopritore del più importante sito nuragico, la reggia e il villaggio di Barumini, nonché padre nobile dell’archeologia sarda, coniò il concetto di “costante resistenziale sarda” per indicare il persistente sentimento d’indipendenza dei sardi, nel susseguirsi delle dominazioni straniere. Questo sentimento ha portato al costituirsi di comunità autoctone indipendenti e organizzate, anche durante le dominazioni più penetranti, come quella romana, ad esempio.
La complessa e millenaria civiltà nuragica esercitò una notevole influenza su tutto l’occidente mediterraneo durante il secondo millennio avanti Cristo. Essa fece da ponte tra le più avanzate civiltà orientali e le estreme periferie occidentali, contribuendo in modo determinante al progresso tecnologico e culturale delle regioni più isolate e lontane dai centri culturalmente egemoni del tempo.
Dal 1000 a.C., l’isola venne interessata dal flusso costante di coloni provenienti dalla Fenicia che costrinse i nuragici, decimati dalle ripetute spedizioni dei cosiddetti Popoli del mare , di cui erano parte integrante, al ripiegamento verso le zone montuose dell’interno o all’esilio verso le coste tirreniche centrali. Gli autoctoni della fascia costiera si integrarono coi colonizzatori asiatici, dando vita a una civiltà di matrice fenicia, ma con notevoli peculiarità sarde.
Le cose si complicarono quando ai mercanti fenici si sovrapposero, nel VI secolo a.C., i ben più bellicosi cartaginesi. Ebbe così inizio la costante resistenziale sarda che dapprima si manifestò nel tentativo di respingimento degli invasori, con le tre guerre sardo-puniche; in seguito, una volta che i cartaginesi ebbero ottenuto il controllo totale delle coste, con il periodico tentativo di riconquista.
Con l’occupazione romana, a seguito della vittoriosa I Guerra Punica, la resistenziale sarda si radicalizzò, tanto che per diversi secoli i latini dovettero tenere il territorio militarizzato e dividerlo in Romània (le terre sotto il dominio effettivo) e Barbària (quelle in cui era solo nominale), da cui deriva il toponimo di Barbagia, o Barbagie, le subregioni attorno al massiccio del Gennargentu. L’episodio più emblematico avvenne prima ancora che il nuovo dominio si fosse consolidato, nel 215 a.C., quando Ampsicora, il magistrato supremo di Cornus, città cartaginese situata tra Oristano e Bosa, si coalizzò con i principi sardi dell’interno, ottenne dalla città madre l’invio di truppe al comando del generale Asdrubale il calvo e mosse contro Cagliari, con l’intento di tagliare i rifornimenti a tutte le città costiere già occupate dai romani. Ma nella battaglia decisiva i romani ebbero la meglio e approfittando della tempesta che aveva impedito alle navi di Asdrubale di sbarcare a Cornus, passarono alla controffensiva, conquistando la città ribelle. Il figlio di Ampsicora, Iosto, trovò la morte nella difesa della città. Secondo Tito Livio, Ampsicora si suicidò alla notizia della morte del figlio; più verosimilmente, egli ripiegò, insieme ai sardi, verso l’interno dell’isola.
Con la caduta dell’impero, dopo 80 anni di occupazione dei Vandali, limitata alla fascia costiera, l’isola passò sotto il dominio di Bisanzio. A testimoniare dell’immutata resistenziale, una lettera di Papa Gregorio Magno indirizzata a Ospitone, chiamato duce barbaricino dal Papa stesso, con la quale chiedeva al principe indigeno di accogliere i suoi messi evangelizzatori Felice e Ciriaco e di aiutarli nell’opera. Il Papa era a conoscenza del fatto che, nonostante la conversione di Ospitone, la gran parte dei suoi sudditi praticava ancora riti pagani, con l’adorazione di simboli fallici legati alla fertilità, come bétili e menhir.
Nei secoli successivi, la Sardegna dovette fronteggiare i ripetuti tentativi di invasione degli arabi che ritenevano l’isola di importante valore strategico, come testa di ponte per una successiva conquista della penisola italiana. Tra il 703 e il 1016, numerose furono le spedizioni di conquista dei mussulmani, ma non ottennero altro che effimere occupazioni litoranee di breve durata. Intanto, il dilagare degli arabi nel Mediterraneo aveva reso sempre più problematici i rapporti tra Bisanzio e i territori dominati, favorendo in Sardegna la costituzione di realtà statuali originali e autonome, i 4 Giudicati. Da una missiva spedita da Papa Giovanni VIII nell’873 ai principi sardi, si evincerebbe che già allora l’isola era sotto questa ripartizione politica.
L’equilibrio tra i Giudicati, pur con frequenti dispute ed occasionali episodi bellici, durò fino al XII secolo, quando le ingerenze delle due Repubbliche marinare di Pisa e Genova si fecero sempre più pressanti. Nel secolo successivo, tre dei quattro Giudicati (Cagliari, Logudoro e Gallura) si estinsero e rimase in piedi il solo Giudicato di Arborea, con capitale ad Oristano. Ma nel 1297, per dirimere le controversie tra le case di Aragona e Angiò a seguito dei Vespri siciliani, Papa Bonifacio VIII costituì artificialmente il Regno di Sardegna, infeudandolo agli aragonesi. Gli Arborea dapprima strinsero alleanza con gli aragonesi, anche attraverso la combinazione di matrimoni, con l’intento di scacciare pisani dalla Sardegna. Ciò perchè consideravano scarso l’interesse degli spagnoli per l’isola e, di conseguenza, più semplice arrivare a un compromesso vantaggioso con loro che con i pisani. Ma nel 1353 il giudice Mariano IV ruppe gli indugi e dichiarò guerra agli aragonesi. Seguì un lungo periodo di battaglie, nelle quali erano sovente i sardi ad avere la meglio, prima sotto Mariano IV morto nel 1376, poi sotto la reggenza della figlia Eleonora d’Arborea, sposata con Brancaleone Doria. Per due volte, nel 1365 e nel 1392, gli Arborea furono ad un passo dall’unificare tutta l’isola sotto la loro corona. Alla morte di Eleonora, avvenuta nel 1404, fu eletto Giudice un nipote della figlia minore di Mariano IV, Guglielmo III di Navarra, il quale condusse l’esercito sardo nella fatale battaglia di Sanluri, nel 1409, che fece volgere definitivamente l’inerzia della guerra a favore degli spagnoli. Nei tre secoli di effettiva dominazione, l’organizzazione capillare degli spagnoli non consentì un vero movimento resistenziale, ma gli episodi di ribellione, anche violenta, non mancarono.
Con il passaggio definitivo del Regno di Sardegna ai Savoia, avvenuto nel 1720, si aprì una nuova fase del resistenzialismo che ebbe il suo apice tra il 1794, con la cacciata dei piemontesi da Cagliari, e il 1796, con i moti antifeudali di Giovanni Maria Angioy. Costui fu senza dubbio la figura più complessa nella plurimillenaria storia dell’autodeterminazione sarda. Di agiata famiglia borghese, dopo gli studi di diritto, iniziò una fulminante carriera accademica, forense, diplomatica e politica, che lo portò ad essere docente universitario a 22 anni e Giudice della Reale Udienza a 38. Sensibile alle idee dell’illuminismo francese, sviluppò un pensiero liberale e progressista al passo, se non in anticipo, con le più progredite correnti del coevo pensiero europeo. Il suo interesse pratico per gli investimenti economici con risvolti sociali (introdusse in Sardegna la coltivazione e la lavorazione del cotone, per favorire la produzione di vele e, conseguentemente, lo sviluppo della flotta peschereccia) lo rende un anticipatore del socialismo utopico di Saint-Simon. Ma in lui convivono anche aspetti del capopopolo e del liberatore delle masse. Nel 1796, mentre sull’onda lunga dei moti cagliaritani la ribellione antifeudale divampava in tutta l’isola, Angioy venne nominato Alternos (sostituto plenipotenziario del viceré) ed inviato a sedare la rivolta di Sassari. Con ogni probabilità, l’incarico nascondeva una trappola, di cui forse lo stesso Angioy aveva piena coscienza: portarlo a solidarizzare con gli insorti e dichiararlo fuori legge. Così fu: Angioy dopo aver ridato ordine in tutto il Capo di Sopra, decise che il momento era propizio per chiedere la fine del regime feudale e migliorare le condizioni di vita del popolo. Iniziò una marcia trionfale di paese in paese, raccogliendo dappertutto volontari. Ma i compagni di partito cagliaritani, probabilmente per liberarsi di una figura tanto ingombrante, non gli garantirono più gli appoggi necessari nella capitale. Così, Angioy, giuntò a metà strada con il suo entusiasta e raffazzonato esercito, dovette ripiegare verso il nord, fino ad imbarcarsi da Porto Torres alla volta di Genova. Tentò dapprima di incontrare il re a Torino, ma resosi conto che, nonostante le garanzie di immunità, si stava progettando la sua cattura, fuggì rocambolescamente verso la Francia dove, dopo aver ripetutamente e invano tentato di interessare Napoleone (fresco di trattato coi Savoia) alla causa sarda, finì i suoi giorni a Parigi, nel 1808. Le insofferenze verso i piemontesi continuarono, sporadicamente, fino all’Unità d’Italia.
Dopo il 1861, il sentimento di autodeterminazione dei sardi si è continuato a manifestare nel pensiero politico, con giganti come Gramsci e Lussu ad essersi interessati alla questione, ma oggi ridotto a un estremo frammentismo, e nel fenomeno delinquenziale del banditismo che traeva ragione d’essere nel non riconoscimento delle Istituzioni nazionali. Ma l’eredità più importante di questa lunga storia sta nel fortissimo senso di appartenenza dei sardi, che ha fatto dei 4 mori uno dei simboli locali universalmente più riconosciuti.