Il nuovo corso di politica energetica messicana inaugurato lo scorso agosto con una riforma costituzionale fortemente voluta dall’attuale Presidente Enrique Peña Nieto rappresenta senz’altro un cambio epocale nella politica energetica del Paese. Con la riforma, infatti, si è consentito l’ingresso nel mercato messicano di nuovi operatori, sia locali che stranieri, sancendo, così, la fine del monopolio detenuto sin dal 1938 dalla compagnia petrolifera di Stato Pemex. Tale scelta è stata determinata dal fatto che la Pemex già a partire dal 2004 navigava in cattive acque per via di numerosi fattori fra i quali il crollo della produttività che da 3,5 milioni di barili al giorno è scesa gradualmente fino a 2,9, l’ammontare dei debiti che oggi toccano quota 60 miliardi e, da ultimo, ma non certo per importanza, gli scandali di corruzione.
In particolare, la nuova legge instaura un regime di libera concorrenza tra aziende pubbliche e private permettendo alle stesse di partecipare, attraverso la stipula di contratti profit-sharing, alle diverse fasi di individuazione, estrazione, raffinazione e distribuzione di petrolio e gas messicano con l’obiettivo di garantire un maggiore sviluppo del Paese e un’adeguata crescita economica attraverso un più appropriato sfruttamento del comparto energetico che, senza dubbio, rappresenta una delle principali fonti di reddito per il Messico, una delle maggiori potenze petrolifere mondiali.
Tra le priorità del governo vi è quella di migliorare l’economia delle famiglie per mezzo di un dimezzamento dei costi dell’energia di luce e gas, di aumentare gli investimenti stranieri e, conseguentemente, l’occupazione, di rafforzare Pemex e la Commissione Federale di Elettricità (CFE) che continueranno a rimanere imprese statali al 100% e di rinforzare il rettorato dello Stato come regolatore e come proprietario dell’industria petrolifera1.
È chiaro, quindi, che la strategia adottata dal governo sia essenzialmente mirata all’ottenimento di investimenti privati (che, in base alle stime governative, dovrebbero corrispondere ad un valore di circa 50 miliardi di dollari all’anno) e all’introduzione di nuove conoscenze tecnologiche necessarie sia per modernizzare la compagnia petrolifera nazionale che utili ad affiancare la stessa in quei settori specifici in cui trova difficoltà ad intervenire.
Tra questi settori rientra certamente quello delle esplorazioni in acque profonde che la Pemex non è in grado di eseguire a causa della sua esperienza limitata alle acque poco profonde. Ma anche il settore dell’estrazione di gas e petrolio dalle rocce di scisto e quello dei pozzi maturi in cui la scarsa presenza di pressione impedisce la fuoriuscita del petrolio2.
Tra gli obiettivi prefissati dal governo vi è, poi, anche quello di garantire al Paese la sicurezza energetica visto che il 49% di benzina e diesel consumati in Messico sono di esportazione in ragione del fatto che la Pemex non è in grado di garantire adeguate percentuali di raffinazione. Stesso discorso può essere fatto per il gas, dal momento che la produzione di Pemex risulta insufficiente per come dimostra il fatto che il ben 33% del gas consumato viene importato3.
Altro punto focale della riforma in commento concerne la modernizzazione del comparto del settore elettrico mirata alla risoluzione dei grandi problemi che lo interessano, tra i quali rientrano l’alto prezzo delle tariffe che mette a rischio l’economia del Paese e la limitata produzione di energia elettrica. Anche su questo fronte la riforma intende garantire la partecipazione di enti privati per il supporto nella produzione di energia elettrica al fine di ottenere una maggiore offerta di elettricità a minor costo. Lo Stato si occuperà quindi di mantenere in maniera esclusiva il controllo del Sistema Elettrico Nazionale e della rete di trasmissione e distribuzione e di fortificare il ruolo della CFE.
Dagli obiettivi della riforma posti dal governo traspare inoltre una sensibilità ecologica che mira a favorire un’inversione di tendenza nello sviluppo tecnologico attraverso l’adozione di fonti di energia meno contaminate e a basso costo tra cui, a titolo di esempio, quella solare ed eolica.
I sopraelencati obiettivi e aspettative contenuti nella descritta riforma per risollevare le sorti energetiche del Paese non incontrano i pareri favorevoli di molti analisti che, al contrario, rinvengono nella stessa un disegno geopolitico che riflette gli interessi del potente vicino statunitense il quale, facendo leva sul Trattato di Libero Commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico (in vigore dal 1994), cerca di controllare le ricchissime riserve petrolifere e gasifere dei suoi vicini più prossimi. Dai critici infatti la riforma è vista come uno strumento per erodere ulteriormente la sovranità nazionale del Paese attraverso la privazione di una delle maggiori ricchezze in suo possesso. Ciò in quanto se le grandi compagnie petrolifere otterranno, come previsto, concessioni massive per l’esplorazione del petrolio e del gas matureranno, per l’effetto, un maggiore controllo e potere sul territorio, sia di carattere politico che economico.
Tra gli analisti è interessante il giudizio reso dal geopolitico Alfredo Jalife Rame il quale ha osservato come la Pemex non versi in un stato di così cattiva salute per come abilmente fatto intendere dai suoi dirigenti e consiglieri attraverso l’esibizione di alcuni dati dallo stesso Jalife Rame definiti “allegri”. Questi, infatti, sostiene che il crollo della produttività (come già detto, sceso da 3,5 milioni di barili al giorno a 2,9) in realtà non sia così drammatico dal momento che il Messico continua a detenere enormi quantità di petrolio in acqua profonda che, seppur di difficile accesso, sono comunque disponibili e sfruttabili attraverso una politica di investimento statale nell’innovazione tecnologica di estrazione, rinunciando all’affidamento alle compagnie straniere. Secondo l’analista, investire sulla tecnologia e sul trasferimento di know how sarebbe stata la strada da preferire rispetto a quella di mettere in mano straniera le risorse messicane4; una scelta, la privatizzazione, che a suo parere rientrerebbe in un disegno strategico di più ampia portata avviato ormai da anni e i cui punti cardine sono stati la privatizzazione del comparto delle telecomunicazioni (indubbiamente prioritario per la sicurezza di uno Stato), l’ingresso del Messico all’interno del NORTHCOM e, da ultimo, la privatizzazione energetica, utili a definire in modo assoluto il perimetro della sicurezza statunitense.
Tale ricostruzione critica non è peregrina se si tiene conto dell’ubicazione geografica del Messico che condivide 3.152 Km di frontiera con gli Stati Uniti. L’ubicazione e la condivisione di frontiera, unitamente alle potenzialità del Messico, sono elementi che potrebbero condizionare la sicurezza del potente vicino statunitense che oggi, ancora più che in passato, è posta in discussione se si tiene conto dell’ondata di cambiamento che nell’ultimo periodo ha interessato la regione latinoamericana attraverso i massicci processi di integrazione – MERCOSUR, UNASUR, CELAC, ALBA – e dell’importante ruolo assunto dalle risorse energetiche per la rinascita della regione, per la sua ritrovata sovranità e per la collocazione sullo scacchiere internazionale.
Per gli Stati Uniti, dunque, il Messico rappresenta una leva fondamentale per riuscire a contenere e controllare la crescita di questo nuovo blocco geopolitico e geoeconomico che è venuto a costituirsi in quello che da sempre è stato considerato un loro “spazio vitale” qualificato dagli stessi come “cortile di casa”.
Prova di ciò è la costituzione dell’Alleanza del Pacifico di cui fanno parte Messico, Colombia, Perù e Cile e che vuole porsi come contrappeso rispetto ai citati MERCOSUR, UNASUR, CELAC, ALBA. In particolare, tale alleanza è stata edificata su uno schema di integrazione conosciuto nella letteratura economica come hub e spoke. Tale schema prevede che il Messico, con il suo ruolo di secondo attore regionale in termini di PIL dopo il Brasile, funga da economia dominante (hub) mentre Colombia, Perù e Cile da economie satelliti (spoke)5. I quattro Paesi, già membri dell’ALCA stanno strutturando questa nuova alleanza sullo schema di quest’ultima6 ma, mentre in quel caso gli Stati Uniti esponendosi direttamente fungevano da economia dominante e gli altri erano satelliti (ivi inclusa l’economia canadese), in tale occasione sarà il Messico a fare da capo cordata, o da testa di legno degli Stati Uniti nella regione, supportato dal Cile, Colombia e Perù che continueranno a svolgere il ruolo di satelliti di tipo commerciale il primo e militare i secondi.
La presenza di Messico e Stati Uniti dovrebbe restringere i margini di manovra della strategia brasiliana e venezuelana di integrazione sia a livello di MERCOSUR che di UNASUR e ALBA. Secondo molti, l’Alleanza del Pacifico avrebbe inoltre un altro ruolo importante da svolgere, ovvero quello del “nuovo monroismo” statunitense per contenere l’avanzata di un’altra nuova potenza mondiale, la Cina, all’interno del continente. Tale alleanza, infatti, rientrerebbe nella strategia Pacifico-Asiatica degli Stati Uniti come strumento difensivo di contenimento dal momento che lo strumento offensivo che detengono nella contrapposizione è rappresentato dal Trans Pacific Partnerschip7.
In definitiva, appare chiaro come in un tale contesto uno Stato come il Messico se dovesse fuoriuscire dall’orbita statunitense costituirebbe una seria e potente minaccia non soltanto per i sopraindicati interessi geopolitici statunitensi ma anche per l’influenza che potrebbe imprimere sui latinos presenti in USA.