19 marzo 2012 Lascia un commento
Anni ’60 di noi italiani, c’e’ chi e’ arrivato e chi no, qualcuno e’ ingegnere, qualcun’altro avvocato, c’e’ persino un chirurgo ma un fallito resta un fallito, un uomo felice comunque e’ un uomo felice, nel dubbio gia’ a quel tempo irrisolto se nella vita conti la tranquillita’ o la felicita’.
Donne come collante di tutto, infine l’ultimo senso possibile eppure c’e’ chi ha le ha conosciute talmente bene da andare oltre e giungere al senso profondo della famiglia passando per i figli, distillando i sentimenti, raccogliendo le miserie dell’egoismo per farne accogliente nido e sereno anfratto nel quale rifugiarsi.
Lo capiranno gli amici? Lo capiranno gli estranei?
Forse e’ tutto talmente semplice che passare per falliti puo’ essere una soluzione, sempre che avere un’anima possa essere pregio e non debolezza.
Film formidabile, amaro, amarissimo, capovolto nel giudicare sconfitte e vittorie, difficile da indossare, combattuti come si e’ nell’inversione dei valori. Opera che anticipa di decenni l’esistenzialismo da post-rivoluzionari coi macchinoni, i mal di pancia dell’essere arrivato ed aver fatto i soldi, la sadica soddisfazione di essere peggiori dei propri padri.
Damiani surclassa con venti e ripeto venti anni d’anticipo "Il grande freddo" una delle peggio boiate del cinema statunitense che dalla sua ha il solo pregio di evidenziare l’entita’ del fallimento umano e morale di chi si e’ illuso di essere la meglio gioventu’ invece della "canticchiante e danzante merda del mondo".
Walter Chiari nella sua piu’ alta prova d’attore, un ruolo a lui consono certo ma e’ difficile pensare a qualcuno che potesse meglio incarnare l’uomo che ha trovato una strada per sentire la vita a modo proprio e quando gli amici arriveranno all’inevitabile momento in cui dovranno affrontare cio’ che sono diventati, egli solo ribaltera’ i canoni della sconfitta trovando nell’illusione dell’eterna giovinezza la sola salvezza dall’ipocrisia, quindi la vera morte dell’anima.
Per il resto sono schiaffi per tutti, dai gaudenti mai cresciuti agli arricchiti per meriti familiari, agli intellettuali contro la guerra ma favorevoli ad infrattarsi nei bagni dei cinema coi ragazzini ai padri di famiglia che oltre i venti anni sono troppo vecchie.
Film attuale non per merito proprio ma per invariato fariseismo italico, dialoghi dello stesso Damiani a tratti da incorniciare, anche qui uno bel ceffone alla cricca dell’intellighenzia "amica" perche’ a quanto pare un film cosi’ non l’hanno saputo fare e forse per questo lo tacciono.
Unica pecca e’ "La rosa bianca" sigla del film, palla mostruosa cantata dal piu’ disperante dei nostri cantautori, Tenco a parte che in quanto a lagne e’ sempre fuori gara, il Sergio Endrigo che ha depresso un’intera generazione tanto che alla prima boiata con un po’ di verve come "L’arca di Noe’ ", volevano farlo santo subito.
Sdrammatizzo ma e’ un film che fa male, sul quale non basta distogliere lo sguardo o chiudere le orecchie e ci si ritrova riflessi nella generazionale consapevolezza che nulla cambia, nulla si distrugge e in fondo comprenderlo e’ il primo passa per una nuova vita, forse più triste ma certo piu’ vera.
Con una critica piu’ sana oggi sarebbe argomento di libri e retrospettive e non si perderebbe tempo con i falliti d’oltreoceano ma visto che cosi’ non e’ il film va visto e rivisto, rispettato come una gemma preziosa e conservato nel piu’ alto degli scaffali, li’ dove dimora il meglio