Se Snoopy, invece del suo romanzo interminabile, scrivesse racconti…
Di SONIA CAPOROSSI
Non è una novità che il racconto, considerato più o meno aristotelicamente come genere letterario, sia stato negli ultimi tempi maltrattato da editori e agenti letterari che tentano di dissuadere gli scrittori dallo scriverne almeno quanto, di conseguenza, i lettori dal leggerne, ripetendo ossessivamente che non vale la pena perché “il racconto non vende”. Fra gli altri (ma sia solo un esempio), Cristiano Abbadessa si è fatto portavoce di questa impostazione critica scrivendo che “la difficoltà di penetrazione sul mercato dei racconti è un luogo comune consolidato dell’editoria italiana. Luogo comune, peraltro, vero e verificato. Noi stessi abbiamo pubblicato, fra i nostri titoli d’esordio, una raccolta di racconti nella quale credevamo molto; e, dal punto di vista letterario, non a torto, perché ha ricevuto solo critiche positive ed è piaciuta a tutti coloro che l’hanno letta. Però, a confronto coi romanzi da noi pubblicati nello stesso periodo, ha venduto pochissimo. E alle fiere, o in altri eventi pubblici, abbiamo constatato direttamente come il lettore, sbirciate le quarte di copertina, riponga sul banco la raccolta di racconti e si orienti verso un romanzo, ovviamente quello che gli pare più plausibile secondo il proprio gusto”.
Se poi la raccolta di racconti di turno appartiene alle vestigia permeate (solo) apparentemente da un alone di neobarocca inaccessibilità decodificatoria per un pubblico di cultura media, come è il caso del mio Opus Metachronicum, ci vuole il coraggio e il gran lavoro di gente seria e preparata, innamorata della letteratura e del testo per il testo, come Dario Ricciardo e Francesco Romeo di Corrimano Edizioni, per pubblicarne (concedetemi un po’ di pubblicità non ipocrita agli editori che hanno osato proporre un accenno di letteratura massimalista in Italia); ma appunto, ci vuole proprio la faccia tosta, il fegato, la costanza e la recidività per insistere con una seconda raccolta di racconti consistente in una riscrittura di autori appartenenti alla dimensione imbaldanzente e altisonante della Storia della Letteratura Mondiale, per quanto, magari, sia una riscrittura affidata questa volta sì, a nomi già noti e consolidati nel panorama letterario italiano, e tuttavia rappresentanti pur sempre un tentativo che dire sperimentale è poco, se pensiamo che nella neonata silloge di racconti Nulla da ridire (Corrimano 2015), i cosiddetti autori “in seconda”, tra i quali figurano Marco Cubeddu, Carola Susani, Christian Raimo, Filippo Tuena, Antonella Cilento ed Emiliano Ereddìa, si cimentano col materiale narrativo di mostri archetipici e, in quanto tale, sacri come Zweig, Melville, Chechov, Puskin, Boccaccio e Omero.
Eppure, nonostante auspicati atti di sfrontatezza culturale del genere, ultimamente si è tornati tristemente a disquisire persino circa l’opportunità o meno del racconto, dilemma di per sé ozioso visto che il racconto è, a nostro parere, un’opportunità di accrescimento tanto per l’autore quanto per il lettore, discorso che però, di per sé, non bisogna dare per pacifico e notorio, se riflettiamo sullo scambio intercorso tra Rossella Milone e Giulio Mozzi di fronte al pubblico accalorato del Festival di Pordenonelegge, che ha portato, tra le altre (buone) cose, alla fondazione di Cattedrale, osservatorio letterario sullo stato di salute del racconto in quanto tale; dibattito di cui la Milone, su Minima & Moralia, parlava il 9 dicembre 2014 in questi termini, riportandone alcuni stralci: “Dopo aver sviscerato, inutilmente, i probabili motivi per cui i racconti non si vendono e non si leggono, verso la fine si profila uno scenario apocalittico secondo cui per Mozzi e alcuni della platea il racconto è spacciato, o quasi. Secondo me e un’altra parte della sala, no. Al che da una poltrona si alza una donna sulla sessantina con un caschetto bianco, un paio di piccoli occhiali, un maglioncino grigio a collo alto. La signora ha in viso il rossore tipico di quando uno si altera, o si emoziona, o si innamora – e a me piace pensare, in quel momento, che la signora sia così rossa perché è innamorata dei racconti, ed è arrabbiata per il loro stato di salute. Ci ha chiesto, puntando un dito contro me e Mozzi: ‘Ma perché non fate qualcosa? Perché non ci inventiamo qualcosa per parlare di racconti? Perché non li portiamo in tivvù?’”.
Nonostante, in quel frangente, la Milone abbia lasciato il buon Mozzi a discutere con la paonazza signora elencandole “tutti i motivi per cui non era affatto pensabile che qualcuno, specie in televisione, si occupasse di racconti”, questo genere letterario è e rimane una modalità scrittoria fondante, di cui nessuno scrittore riesce a fare a meno in certi momenti della propria carriera artistica. La verità è che una certa fetta di pubblico, pubblico che nessun editore accorto potrebbe ignorare, adora il racconto, modalità narrativa che la gente spesso trova più agile e meno impegnativa alla lettura; ed infatti ultimamente sta rinascendo in modo indubitabile, come si evince dalla fortuna editoriale del genere, fondamentalmente utilizzando una doppia modalità fenomenologica, quella dell’antologia multiautoriale a tema e quella del racconto lungo, anche detto romanzo breve.
Per quanto riguarda la prima modalità, penso ad esempio ad ESC – quando tutto finisce (Hacca 2012), a cura di Mauro Maraschi e Rossano Astremo, antologia a tema uscita già tre anni fa con racconti (fra gli altri e non a caso) di Carola Susani, Emilia Zazza, Cinzia Bomoll, Paolo Zardi, la quale raccoglie i racconti di undici autori diversi ispirati alla fine del mondo e al famoso 21 dicembre 2012 del calendario Maya, “undici personalissime versioni dell’apocalisse, undici giovani autori italiani” che “focalizzano un unico evento, o meglio la reazione a un evento, la fine di tutto, con una lente diversa e sollevando, più che vere e proprie catastrofi, il velo che nasconde le nostre piccole apocalissi quotidiane. Il risultato, oltre a essere un’abile rassegna della narrativa italiana contemporanea, è un mix vertiginoso e imprevedibile”, come scriveva tempo addietro Giulia Zavagna su Flanerì.
Penso anche ai racconti a tema di Père-Lachaise, racconti dalle tombe di Parigi (Ratio et Revelatio 2014) contenente testi, fra gli altri, di Francesco Abate, Claudia Boscolo, Simona Castiglione, Laura Liberale, Gianluca Morozzi, Andrea Ponso, Paolo Zardi, circa la genesi della quale la curatrice e autrice Laura Liberale ci ha raccontato il seguente aneddoto: “per il magazine Civico 103, edito dalla Galleria Civica di Modena, nel 2012 uscì un mio racconto ambientato nel cimitero parigino del Père-Lachaise, luogo che amo particolarmente. Da lì, mi frullò in testa l’idea di curare un’antologia avente per tema proprio il Père e i suoi illustri “occupanti”. Coinvolsi così alcuni amici scrittori e incaricai il mio agente di andare in cerca di un editore interessato. “In Italia i racconti non vendono!”, fu la risposta che mi sentii più spesso ripetere. Così decisi di fare una boutade-outing su Facebook (fra gli amici virtuali di uno scrittore, si sa, vi sono molti editori) e domandai in un post assai diretto se vi fosse qualche editore disposto a pubblicare un’antologia del genere. Nel giro di poche ore mi rispose una vecchia conoscenza, Raluca Lazarovici, intellettuale animatrice della scena culturale padovana per molti anni, da poco tornata nella patria natia, in quel di Oradea, e qui fondatrice, assieme al marito (filosofo e teologo di discreta fama) della casa editrice Ratio et Revelatio. L’idea le piacque moltissimo. Mi diede, conoscendomi e avendomi già letta in passato, totale carta bianca, piena libertà di scelta degli autori, della tempistica, dei lavori. Raluca covava da qualche tempo l’idea di immettersi nel mercato italiano con libri di qualità in doppia edizione: in italiano e in romeno, da fare uscire contemporaneamente in entrambi i Paesi. Mi mostrò materialmente i libri già usciti per le sue edizioni: prodotti editoriali di elevata qualità, pregevoli sotto ogni aspetto, non ultimo quello della qualità della carta. Ci lanciammo dunque nell’avventura. Formai una squadra di 23 autori, me compresa, tra cui Francesco Abate e Gianluca Morozzi (tanto per dire due nomi assai noti), ma coinvolgendo anche, da docente di scrittura creativa quale sono, ex allievi talentuosi ed esordienti in narrativa, più tre sceneggiatori RAI e qualche poeta…”. Se, insomma, persino una casa editrice estera decide di investire nel racconto in Italia, qualcosa – che ne pensate?- vorrà dire.
La silloge multifirma a tema, dicevamo poco fa, è proprio la modalità attraverso cui si dipana una sorta di rassegna dello stato di salute del narrabile in Italia, attraverso l’interessante esperimento della compartecipazione di firme già note ed affermate accanto a esordienti veri e propri; ma ultimamente, pare che dia segni di vitalità prorompente anche la forma ben più tradizionale del romanzo breve – o racconto lungo di calviniana memoria- messo in opera specialmente dalle piccole e medie case editrici. Molto spesso il romanzo breve prende forma da un nucleo narrativo originario consistente in un racconto, come sa bene lo stesso talentuoso Simone Ghelli il quale, nel redigere il suo Noi, Onesti Farabutti (Caratteri Mobili 2012), ha operato una riscrittura di un primigenio abbozzo di racconto risalente al 2007, del quale afferma: “ogni tanto qualcuno mi diceva che era un peccato lasciarlo così, che era una delle cose migliori che mi fosse capitato di scrivere, e allora col tempo mi sono abituato a questa idea di ritornarci, anche se lo facevo con una certa dose di timore – perché per me i racconti sono come delle piccole stanze con un loro ordine ottenuto faticosamente, che quando ci entri devi stare attento anche a come apri la porta, che basta un soffio di vento a scombinare tutto.” Ecco che allora si producono sempre più spesso libricini agili e snelli, che si leggono d’un fiato e che per questo ambiscono a riempire il vuoto d’immaginario di cui siamo oppressi nella nostra vita da trottole.
Non sarà forse un caso che nel 2012 è uscito anche un saggio di capitale importanza per il discorso critico che stiamo intrattenendo, ovvero La fortuna del racconto in Europa di Milly Curcio (Carocci 2012), in cui, “da Boccaccio a Svevo, da Joyce a Gombrowicz, da Beckett a Ginzburg, da Deledda a Handke, da Marinkovic a Parise, da Manganelli a Benati” si compie una disamina puntuale della riscoperta in corso, sul doppio inscindibile piano della critica e del pubblico, di questa fondamentale forma scrittoria davvero dura a morire, la cui fantasmagorica malattia mortale, checché se ne dica, appare in tutta la propria paventata ma inesistente gravità soltanto a chi non ci si vuole cimentare causa scarsi ritorni per i costi di produzione, oppresso com’è, magari, dalle scadenze del pagamento dell’IVA gravante come non mai sull’Impresa italiana in tempi di crisi, da cui l’Editoria non trova requie né scampo. Eppure, si sa, basterebbe osare per trovare mercato, perché nel mercato l’offerta, come spesso accade, stimola la domanda e non viceversa.
Bisognerebbe insomma convincersi della giusta analisi di Andrea Camillo, che poco più di un anno fa su Finzioni identificava il racconto come il genere letterario del Ventunesimo Secolo scrivendo: “Secondo The Bookseller, nel Regno Unito le vendite del genere sono aumentate del 35%, lo scorso anno. Ma, scrivono sul Telegraph, è la tecnologia che ha cementato il successo del racconto in questo secolo. Rappresenterebbe la soluzione perfetta e più adatta ai nostri tempi, alla frenesia quotidiana, alla rapidità ispirata dai dispositivi mobili. Più veloci, più connessi. Su un piede solo nel vagone strapieno della metropolitana, ma con gli occhi fissi sull’ereader o sul tascabile, ché ho tre fermate giuste giuste per leggermi un racconto. Di solito è proprio la sua caratteristica principale, la brevità, a segnare (secondo alcuni) lo svantaggio rispetto al romanzo. Il romanzo ti prende, mentre il racconto finisce subito, troppo in fretta. Ebbene, i tempi che cambiano modificano anche le prospettive e gli svantaggi diventano vantaggi. C’è chi non ha tempo per perdersi in un meraviglioso mattone e vuole emozioni subito, rapide, a portata di mano. È la fine del romanzo? Ma per favore. Casomai è la giusta rivalutazione del racconto, non più gregario. E gli stessi autori cominciano a percepirlo. Scrivere e farsi pubblicare una raccolta può essere una conquista a livello personale, in più si ha l’impressione (proprio perché non si vendono) che i racconti nascano da un bisogno tutto letterario”.
In definitiva, come sembra suggerire ancora Milly Curcio nella sua curatela Le forme della brevità (Franco Angeli 2014), occorre oggi tornare ad indagare criticamente l’istanza narrativa della brevità in quanto tale (e l’autrice, nel suo libro, lo fa “in maniera trasversale, dal racconto al documentario al fumetto all’aforisma al madrigale”). Ebbene sì, stiamo tornando, più o meno ostentatamente, più o meno in sordina, a farci avvolgere e coinvolgere dal mielato piacere della ricezione del narrabile: e siccome, come dice Bateson, “il processo mentale richiede un’energia collaterale”, ecco che, se il racconto è breve, per una sorta di ossimorico contrappasso, il simbolismo da cui saremo permeati in seguito alla lettura diverrà a maggior ragione a lungo termine: sono spesso i racconti, fateci caso, il materiale narrativo archetipico e simbolico di cui ci nutriamo come colonna sonora interiore della nostra vita (un locus che ha nutrito me e il mio immaginario di autrice di racconti: i Ricordi dal sottosuolo di Dostoevkskij, tanto per dirne uno).