Gli italiani stanno riscoprendo i fagioli, anche come sostituto della (più costosa) carne
Gli Italiani li stanno riscoprendo, anche come sostituto della (più costosa) carne. I produttori confermano il periodo positivo. I problemi? Rapporti complicati con l’industria di trasformazione e mercato dei semi ormai monopolizzato dalle multinazionali
Da un lato i rapporti non sempre facili con la grande distribuzione e con l’industria di trasformazione. Dall’altro, la concorrenza estera a basso costo, i comportamenti scorretti di chi usa prodotto importato come se fosse Made in Italy, il peso delle multinazionali detentrici dei brevetti di molti semi utilizzati dai coltivatori.
In mezzo ci sono i produttori. Alle prese con problemi analoghi a molte altre filiere e con una consapevolezza crescente: uniti si vince e si aumentano i margini di guadagno. Al netto di tutto, una frase, confidataci da uno dei molti addetti ai lavori intervistati: «Quando c’è da piangere è giusto lamentarsi. Ma in questo momento non possiamo farlo».
Consumi e controvalori in crescita
Fra i filari di fagioli, i segnali positivi in effetti sembrano superare le (inevitabili?) ombre. A partire da una produzione stabile (quella del prodotto secco si attesta attorno ai 120mila quintali, concentrata in 8 regioni, vedi grafico ) e da consumi in crescita, anche grazie allo scomodo alleato della recessione economica: la “carne dei poveri”, tradizionale appellativo dei legumi, aumenta sulle tavole italiane. Che non sia un male dal punto di vista sanitario, lo lasciamo dire ai nutrizionisti. Che sia un vantaggio per i produttori lo dicono i numeri (vedi grafico): dal 2009 il consumo di fagioli freschi è cresciuto dell’8% e del 2% quello dei fagioli in scatola. Ancora più consistenti gli aumenti dei controvalori economici: +12.2% per il prodotto fresco e +15,6% per il secco.
L’importanza dei contratti di filiera
«Tra le varie regioni ci sono forti differenze nei consumi – spiega Franco Ramello, responsabile economico di Coldiretti Piemonte – ma la cultura dei legumi si sta diffondendo anche nelle aree meno abituate a mangiarli (soprattutto nel Nord-Ovest, ndr). Negli ultimi 3-4 anni, i prodotti italiani sono sempre più ricercati e questo permette di strappare migliori prezzi nei rapporti con l’industria».
Un tassello, quest’ultimo, essenziale per il buon funzionamento della filiera («la presenza di industrie italiane permette una rapida trasformazione del prodotto fresco, essenziale per mantenere inalterate le sue caratteristiche e conservarne la qualità» ammette Ramello). Ma l’industria appare ancora poco disposta a sottoscrivere contratti di filiera, che assicurino una giusta remunerazione dei produttori: 130-150 euro al quintale per le varietà nane che permettono una semina e raccolta meccanizzata; 300-350 euro per le varietà rampicanti che impongono la raccolta a mano. «Purtroppo molto spesso i prezzi offerti sono minori. Colpa anche del prodotto secco che arriva dall’estero (soprattutto Cile e Canada, ndr) a 50-60 dollari al quintale e talvolta mischiato con i fagioli italiani, per aumentare i profitti».
La soluzione sarebbe arrivare a contratti pluriennali: «In alcuni casi già si sottoscrivono contratti triennali – prosegue Ramello –. Facendoli a inizio campagna, permettono di sterilizzare la volatilità e l’oscillazione dei prezzi e danno agli agricoltori la certezza di poter fare investimenti».
I vantaggi dell’unità
Per stare nei costi e aumentare il potere contrattuale, essenziale è la nascita di consorzi di vendita, da affiancare a quelli di tutela. Significativa è in tal senso l’esperienza di Fagiolcoop, che da tre anni riunisce i 60 produttori del Piemonte. Prima della sua nascita ciascun agricoltore vendeva il proprio raccolto a operatori commerciali locali che pagavano prezzi molto bassi («60-80 euro al quintale» ricorda Ramello) e rivendevano il prodotto all’industria. Unendosi, i produttori piemontesi hanno reso inutile tale passaggio: «Abbiamo rapporti diretti con l’industria, alla quale offriamo i fagioli già puliti, selezionati e confezionati in sacchi da 10-20 kg. Fagiolcoop fa una fattura unica e paga poi i vari soci in base alle rispettive quantità conferite». Il risultato: i prezzi di vendita dei fagioli (rampicanti) sono saliti a 350-360 euro a quintale. «La cooperativa – aggiunge Pietro Marchisio, presidente del mercato ortofrutticolo di Boves (uno dei più importanti per il commercio di fagioli piemontesi) – ha permesso di raggiungere nuovi mercati e di garantire ad acquirenti di grandi dimensioni i quantitativi sufficienti per soddisfare gli ordini».
Il problema dei semi brevettati
La filiera, dunque, si può semplificare con vantaggi per tutti. C’è però un altro “nemico” da affrontare. E le soluzioni, in questo caso, sono più complesse. Rivela Marchisio: «Le multinazionali delle sementi da ormai 10-15 anni hanno in mano il mercato delle nuove varietà di semi, la cui riproduzione è vietata». Tipologie diffuse perché più richieste dai consumatori: «I fagioli risultavano più belli, più rossi, più conservabili e quindi, all’inizio, avevano più mercato».
Il problema è che, avendone il monopolio, le ditte proprietarie del brevetto possono fornire anche semi di qualità più scadente senza troppi problemi: «Se il prodotto che ne deriva è peggiore, può essere venduto solo a prezzi inferiori e i margini di guadagno si riducono». Purtroppo, ormai quasi tutti i produttori utilizzano tali semi, mentre si sono via via perdute le tipologie tradizionali. «L’unica soluzione passa per la loro riscoperta – commenta Marchisio – ma chi ha ormai la forza per avviare questo sforzo?».