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La rivolta del chiodo

Da Olivierifrancesco

LA RIVOLTA DEL CHIODO

LA RIVOLTA DEL CHIODO LA RIVOLTA DEL CHIODO
Monologo teatrale Di Francesco Olivieri
Avete presente un chiodo? Voi lo prendete, lo battete con quella forza necessaria affinché lui faccia il suo dovere Quello di sostenere Cosa? Quello che volete Lo stramaledite a volte però Perché prende pieghe che non sono quelle che vi siete prefissati quando lo avete impugnato e avete cominciato a scalciarlo col martello A volte lo vorreste piegato in due pronto a morire nella calce grezza delle viscere della vostra casa O no? Ma nella maggior parte dei casi per fortuna il chiodo segue gli ordini impartiti Affonda dritto come un soldato di guerra E si attanaglia al muro come un mastino al polpaccio di un essere umano Avete presente no? Quei mastini neri incazzati che quando incrociano il vostro sguardo hanno già la rabbia che sale L’odio insensato e irrazionale di un istinto di sopravvivenza Che si manifesta in quei denti che digrignano già il vostro futuro prossimo Allora voi pregate un dio qualunque se ne avete uno a cui appellarvi E guardate quella corda che gli strozza il collo Mentre un altro essere umano Di solito evita a voi una morte certa Tirando il braccio con quella forza che stringe la trachea di quel cane assetato della vostra carne Ma torniamo al nostro chiodo Avete quindi presente Quando preciso azzanna le interiora della vostra parete E si impossessa di quello spazio Lo fa suo e mantiene quell’equilibrio tra interno ed esterno Come solo un chiodo sa fare Quando avete finito di percuoterlo bene Quando anche lui ha fatto quello che doveva Senza storcersi Senza ribellarsi Gli piantate sulla testa il peso della vostra vanità Un bello specchio Grande Immenso Specchio E vi guardate mentre lui mantiene a denti stretti la sua posizione di chiodo In quello specchio ho visto un uomo Stanco Affossato Ingrassato e impaurito Un uomo dalle mani callose di quelle che hanno grattato la vita a suon di lamiere tagliate Un uomo dallo sguardo spento che cerca la sua identità Sei e mezza del mattino L’aria fredda e la nebbia sempre presente Quel piazzale era la navata di questa mia vita devota alla ripetizione A catena si dice Un bullone che esce Un bullone che entra Un bullone che esce Un bullone che entra Sempre Senza sosta Se non per andare al cesso ad inalare la nicotina tanto desiderata E poi tornare Bestemmiando con dovizia sull’acciaio che si amalgamava al disegno della produzione Poi le notti quando c’era un mondo che preferiva dormire Io e altri uomini come me Caricavamo i nostri corpi su quel furgone bianco Mentre i rumori delle città abbassavano le loro urla Quando la notte stendeva la coperta sulle nostre mogli e sui nostri figli Percorrevamo quella statale punteggiata da lampioni e puttane Svoltavamo al solito angolo E al piazzale tiravamo il freno a mano Scale mobili Quello che le nostre mani producevano Scale mobili per un mondo pigro Scale mobili per dare agli esseri umani quella possibilità di stare fermi in movimento Martellare Senza sosta queste teste di chiodo Martellare Senza pietà queste teste di ferro Cristo madonna ma come diavolo si fa? Me lo dite? Come diavolo si fa a farsi percuotere ogni giorno che un dio qualunque manda in terra? Come si fa a restare sempre dritti e sostenere la vanità altrui? Avete presente un chiodo? Voi lo prendete, lo battete con quella forza necessaria affinché lui faccia il suo dovere Quello di sostenere Cosa? Quello che volete Lo stramaledite a volte però Perché prende pieghe che non sono quelle che vi siete prefissati quando lo avete impugnato e cominciato a scalciare col martello A volte lo vorreste piegato in due pronto a morire nella calce grezza delle viscere della vostra casa O no? E il sudore colava come olio di un motore usurato Colava sulle nostre facce annerite dalla noia Imbrattava queste braccia colme di vene pulsanti Si spargeva come unto sull’altare di questa fabbrica Enorme Immensa Infinita Mi sono stancato di stare ai vostri ordini Che lavoro 50 ore alla settimana e ancora non ho visto lo stipendio A dire la verità Si si non fate quelle facce da culo che vi stanno proprio bene attaccate così a quei colli adunchi A dire la verità sono 6 mesi che non vedo lo stipendio Non vediamo Ed ora ci proponete di andare all’estero Che la produzione torna a pieno regime Perché là le materie prime costano meno Ma come diavolo faccio io Chiodo incastrato nelle mura di questa struttura a reggere ancora questo vostro mirarvi Questo vostro auto compiacervi? Come? Ditelo Dite a me e a questi miei amici operai Come possiamo lasciare tutto per inseguire La nostra fabbrica Perché fate quelle facce Questa è la nostra fabbrica Non la vostra Tirata su con le nostre mani E ora volete portarcela via? No cari vi sbagliate di grosso
Quando la pioggia si abbatte su questa terra nera Su questa terra nuda di braccia nude lavorata Squarcia le certezze Divarica le strade Seppellisce quel che di vivo trova Irrefrenabile instancabile la sentiamo che cade senza sosta Un giorno due giorni tre giorni Finirà mi dico io Finirà questa pioggia Quest’acqua maledetta Si stancheranno le nuvole di sparare queste pallottole bagnate Come tanti chiodi cadono sulle nostre teste Bagnano noi operai Bagnano le vacche che nelle stalle strillano il dolore del latte non munto Bagnano le panche della chiesa che prega il suo dio di fermarle Bagnano senza pietà ogni cosa Ogni centimetro di noi Ogni singolo centimetro di pelle Come tanti chiodi affondano nella terra e quelle che non trovano spazio cominciano a formare laghi Acqua assetata che corre senza sosta In questa alluvione signori miei perdo quella che era mia moglie Bevuta dalla terra come un sorso di grappa Persa nei rivoli di nuvole stanche di portare il peso del tempo E la fabbrica diviene un mare disperato Colmo di scale mobili che portano i corpi orizzontali direttamente in paradiso Ma quale paradiso? E ce lo ricordiamo bene col lutto stretto al cuore Gli stivali fino alle ginocchia Con gli occhi colmi di pioggia umana Ce lo ricordiamo quando aspettiamo che l’acqua divenga terra e sulla terra possiamo nuovamente poggiare i piedi Nel fango troviamo i macchinari senza vita Una fabbrica piegata in due Ricordate anche voi si? O adesso avete altro a cui pensare? Chi? Chi vi ha rimesso in piedi questa maledetta santa fabbrica? Chi? Noi Cristo Noi operai Noi con i nostri parenti accatastati alla morte Abbiamo lavorato giorno e notte Per due settimane senza mai fermarci Questa fabbrica per noi è pane Comprendete? Pane da sfamare le bocche non solo nostre Pane lavorato con l’olio dei bulloni Pane che ci fa ridere quando ne abbiamo tempo In quelle domeniche che ci date grazia di vivere Pane che apparecchia gli abbracci dei pranzi e delle cene della gente nostra Pane che sazia il vuoto di questo dolore di pioggia maledetta Pane benedetto spezzato nelle parole giocate a carte mescolate nell’ebbrezza di una bottiglia di vino Che altro? Che altro se non questa nostra fabbrica Si Nostra Non vostra Questa creatura l’abbiamo curata Salvata Amata Lì dentro c’è il sudore della passione In quei capannoni si odora ancora la nostalgia della meccanicità artigiana Poi ci avete voluti schiavi E noi non eravamo più necessari Macchine sempre più intelligenti e autonome Prendevano il posto delle nostre braccia A catena Potevamo stare sempre a catena Potevamo stare sempre a catena Potevamo stare sempre a catena È lì che ho cominciato ad odiare il mio lavoro Nella ripetizione sempre uguale Nella ripetizione sempre uguale Nella ripetizione sempre uguale Sentite non vi sembra un martello sul chiodo? Nella ripetizione sempre uguale Nella ripetizione sempre uguale Nella ripetizione sempre uguale Nella ripetizione sempre uguale Nella ripetizione sempre uguale Nella ripetizione sempre uguale Noi si moriva dentro Lentamente Ma nonostante tutto Si lavorava Respirando l’acciaio Ma si lavorava Come muli Avete presente? Come muli che senza chiedersi un perché Tirano i carri degli umani Tirano e soffrono in silenzio Avete presente un chiodo? Voi lo prendete, lo battete con quella forza necessaria affinché lui faccia il suo dovere Quello di sostenere Cosa? Quello che volete Lo stramaledite a volte però Perché prende pieghe che non sono quelle che vi siete prefissati quando lo avete impugnato e avete cominciato a scalciarlo col martello A volte lo vorreste piegato in due pronto a morire nella calce O no?
Lo ricordo nella sua figura piegata ad ombra Lo ricordo che si alzava prima del sole Si vestiva con quelle mani di terra Beveva un caffè sporcato di grappa Prendeva la vanga e spariva nella nebbia Lo ricordo nella sua figura piegata ad ombra Che bestemmiava con dovizia ogni patata marcita Poi gli occhi suoi si illuminavano Quando quel sudore seminato per giorni e giorni Emetteva frutti da quelle zolle sparpagliate nei campi Mio padre era uno di poche parole Con un cenno mi ordinava di seguirlo Per andare a svegliare quel sole pigro Nascosto in quella immensa nuvola adagiata al suolo E zappavo come bisognava zappare Impugnavo la fatica Poggiavo il piede alla vanga E penetravo con tutta la forza che avevo quella lama Nelle viscere di quella nera terra Che pareva tutta uguale Ed infinita Affondavo il piede e l’orizzonte ad ogni passo si faceva più lontano Quella stessa vanga ho utilizzato per salutarlo Quando il sole era riuscito a svegliarsi prima di lui Mamma in cucina nel silenzio di un giorno divenuto buio prima che la luce potesse mettere piede tra le persiane Mentre lui nel letto Aveva gli occhi aperti Ancora La mia mano destra nella sua sinistra Da terra a terra sentivo le sue vene svanire a poco a poco Vendi questi campi e dai a tua madre quello che le spetta Prendi il resto e sparisci da qui Inteso? E ora lasciami morire in pace Queste le sue ultime parole Il crocifisso che era sempre stato sopra il letto era nella sua mano destra Quella stessa vanga ho utilizzato per salutarlo Adagiandolo dentro la sua terra Affondavo il piede e l’orizzonte ad ogni passo si faceva più vicino E dopo che ho venduto metà dei campi E dato a mia madre quello che le spettava Non sono scappato Questa terra appartiene ai miei piedi Ho preso quindi a lavorare il metallo Garzone nella bottega di un fabbro prima Poi per sfamare le bocche di mia moglie e dei miei figli Mi sono trovato qui in questa fabbrica
Avete quindi presente un chiodo? Quando preciso azzanna le interiora della vostra parete E si impossessa di quello spazio Lo fa suo e mantiene quell’equilibrio tra interno ed esterno Come solo un chiodo sa fare Quando avete finito di percuoterlo bene Quando anche lui ha fatto quello che doveva Senza storcersi Senza ribellarsi Gli piantate sulla testa il peso della vostra vanità Un bello specchio Grande Immenso Specchio E vi guardate mentre lui mantiene a denti stretti la sua posizione di chiodo In quello specchio ho visto un uomo Stanco Affossato Ingrassato e impaurito Un uomo dalle mani callose di quelle che hanno grattato la vita a suon di lamiere tagliate Un uomo dallo sguardo spento che cerca la sua identità Ma quale identità? Quale? Poi giunti alla navata della fabbrica Scendiamo dal furgone con quella sottile inerzia dell’alba affaticata Nel buio pronto ad abbandonare il cielo Puntiamo ai cancelli come sempre Come da venticinque anni facciamo C’è però in noi un ghigno addentato C’è una rabbia sottile che veste quei nostri corpi Stanchi E camminiamo Come d’abitudine Sull’abitudine di gesti impressi nella memoria Meccanica fabbricata nei muscoli Come tanti segni della croce ripetuti infinite volte Passiamo quel tratto di asfalto che divide noi Da quelle finestre illuminate Colme della vostra presenza appena passata Nel frastuono ovattato della notte fuggitiva Mentre voi scappate Questa fabbrica rimane Come vero iddio che esiste una giustizia Questa fabbrica rimane Su questa terra nera Andate andate pure voi Andate a menare il culo altrove Ma non un solo bullone verrà spostato Non un solo operaio verrà licenziato Qui e ora dovete tendere quelle orecchie che sino ad oggi hanno ragliato i vostri stessi pensieri Avete presente un chiodo? Voi lo prendete, lo battete con quella forza necessaria affinché lui faccia il suo dovere Quello di sostenere Cosa? Quello che volete Lo stramaledite a volte però Perché prende pieghe che non sono quelle che vi siete prefissati quando lo avete impugnato e cominciato a scalciare col martello A volte lo vorreste piegato in due pronto a morire nella calce grezza delle viscere della vostra casa O no? Lei era arrivata come il vento d’estate Aveva le cosce madreperla accavallate nelle gonna Quelle labbra che sapevano di pane appena sfornato Quegli occhi di cielo autunnale E nella chiesa dove da piccolo rincorrevo le lucertole Le avevo promesso amore eterno Mi aveva regalato due figli che oggi studiano A fatica ma studiano Due maschi Quattro braccia per la terra pensavo una volta Quattro braccia da saziare di lavoro per raccogliere il frutto di questa nostra nera terra Ma quell’acqua dilaniante Mi aveva lasciato solo la fede al dito La fede che un giorno l’avrei potuta rivedere In quel paradiso che il prete dipingeva come eterno e Bellissimo Ma qui in questa nera terra Tra una bestemmia e un padre nostro Tiravo su quei due figli come meglio potevo E prima di vendere quei campi che avevo tenuto per loro Ad ogni fine turno della fabbrica Li portavo tra le zolle ad assaporare Le nostre radici Perché ovunque un giorno si fossero imbarcati Ovunque avessero trovato casa Sapessero che le radici sono importanti Ti legano a questa nera terra Che bastarda scortica il sudore dal lavoro Ma benedice chi la porta nel cuore Ogni passo lontano da qui Ha l’ombra nera del passo di questa nera terra Ogni passo lontano da qui Ha l’ombra nera del passo di questa nera terra Ovunque Questi miei piedi vangano zolle anche quando cammino Imparate bene questo figli miei Arate bene il vostro cuore Prima di seminarci i ricordi Altrimenti vi trovate il passato che vi manda a puttane il raccolto della vostra vita Come io ho arato il mio Ed oggi posso camminare mano nella mano con vostra madre Percependo ogni sua carezza Ogni suo sorriso levigato da questa nera terra Da questa bastarda meravigliosa nera terra
Sostenere le idee Quelle che c’avete percosso per anni e anni Oggi sono qui che chiedono il riscatto Ci vogliono martelli solidi per combattere la paura Ci vogliono martelli duri per sconfiggere la tensione La fame ne sa qualcosa sapete? La fame è un braccio teso pronto a colpire quando non sazia la propria necessità E questo acre momento ha il dolce sapore della rivolta Questo istante è anni che lo aspettiamo Anni di nervi scorticati Anni di muscoli induriti Anni di polmoni affumicati Questo istante è anni che lo desideriamo Li sentite come assieme all’unisono Mollano la presa della parete E tutti i quadri Tutti gli specchi Crollano All’unisono Nel silenzio di quest’alba argentea Mentre la nebbia tenta di nascondere la vostra vergogna Vi unite ai conigli per fuggire senza nemmeno prendere fiato Siamo uno Siamo cinque Siamo venti Siamo 246 operai Tutti qui presenti con i martelli in mano Tutti qui mentre i chiodi saltano All’unisono Siamo uno Siamo cinque Siamo venti Siamo 246 operai Tutti presenti con i martelli in mano Tutti qui mentre i chiodi saltano E la vostra paura dipinta nell’eco delle vostre urla Si assottiglia man mano che il sole si alza Avete quindi presente un chiodo? Quando preciso azzanna le interiora della vostra parete E si impossessa di quello spazio Lo fa suo e mantiene quell’equilibrio tra interno ed esterno Come solo un chiodo sa fare Quando avete finito di percuoterlo bene Quando anche lui ha fatto quello che doveva Senza storcersi Senza ribellarsi Gli piantate sulla testa il peso della vostra vanità Un bello specchio Grande Immenso Specchio E vi guardate mentre lui mantiene a denti stretti la sua posizione di chiodo In quello specchio ho visto un uomo Energico Forte Ingrassato ma non impaurito Un uomo dalle mani callose di quelle che hanno grattato la vita a suon di lamiere tagliate Un uomo dallo sguardo acceso che ha trovato la sua identità Quale identità? Quella di essere parte di un sogno Perché mentre voi battendo la fuga a suon di scarpe laccate Vi vestite con abiti fradici di vigliaccheria Io ho trovato la mia gente Eccoli qui i miei operai Eccole le grida di rabbia gioiosa mentre i martelli battono sui cancelli 246 martelli All’unisono La sinfonia della rivolta Eccole le lacrime che fendono le emozioni Eccoli questi uomini che stringono la dignità nella mano chiusa 246 martelli All’unisono La sinfonia della rivolta Eccole le bocche che strozzano le urla Eccoli questi occhi che sbranano l’arroganza 246 martelli All’unisono La sinfonia della rivolta Siamo uno Siamo cinque Siamo venti Siamo 246 operai Siamo uno Siamo cinque Siamo venti Siamo 246 operai Siamo uno Siamo cinque Siamo venti Siamo 246 operai.
©OlivieriFrancesco

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