“A significant number of human rights and international humanitarian law violations are still committed, primarily by illegal armed groups, but also allegedly by State agents. The continuing high level of violence and the persistence of the internal armed conflict have serious humanitarian consequences for civilians”1.
E’ con queste parole, davvero poco incoraggianti, che l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (UNHCHR) descrive la situazione della Colombia a quasi cinquant’anni dall’inizio della cruenta guerra intestina che ha trasformato l’intero Stato in un insanguinato campo di battaglia. I numeri, in termini di costo di vite umane, sono così elevati che risulta impossibile tracciare un quadro preciso in tal senso: nonostante le rassicurazioni del presidente Santos che, dal momento del suo insediamento a Palacio de Nariño, aveva stabilito con ottimismo l’obiettivo di porre fine alla guerra civile attraverso la strada dell’apertura ai negoziati con le FARC, ciò che è certo è che le cifre del conflitto non sembrano diminuire.
Difensori dei diritti umani, donne, sindacalisti, contadini e indigeni sono le categorie più colpite: solo nel 2012 ben 84 indigeni sono stati uccisi e più di 1.500 sono stati sfollati durante gli scontri tra le forze di sicurezza e le FARC. Costretti a scegliere se affidare la propria sicurezza ai guerriglieri o ai paramilitari, nelle comunità rurali spesso gli individui si danno alla fuga, cercando salvezza nelle aree urbane e ingrossando le fila dei desplazados2: nell’ultimo anno, infatti, ben 259.000 persone hanno dovuto abbandonare le proprie case, con la conseguenza che, ad oggi, quasi cinque milioni di colombiani vivono come rifugiati nel loro stesso Paese3. Gli effetti di tale drammatico scenario si ripercuotono non solo sulla qualità della vita della popolazione ma anche sull’equilibrio su cui si regge il sistema produttivo colombiano.
In realtà la Colombia figura tra i Paesi più “stabili” dell’America del Sud: il PIL è costantemente aumentato nell’ultimo decennio, raggiungendo tassi di crescita del 4% annuo e consentendo a Bogotà di guadagnarsi un posto di rilievo sul podio riservato alle cinque principali economie dell’America Latina. Va tuttavia sottolineato che le esportazioni di petrolio – principalmente dirette verso gli Stati Uniti – rappresentano una delle entrate principali del Paese ma lo rendono, al tempo stesso, vulnerabile rispetto alla volatilità che caratterizza il mercato petrolifero. Il tasso di disoccupazione, inoltre, supera il 10% e quello di povertà si attesta intorno al 35%: ciò implica che circa un terzo della popolazione si situa al di sotto della soglia sufficiente a garantire un tenore di vita accettabile4.
In tale contesto ricco di contraddizioni, la politica estera di Santos ha convogliato i suoi sforzi principalmente in due direzioni: da una parte si è concentrata sull’incremento degli investimenti diretti esteri, in particolare nel settore degli idrocarburi, e dall’altra sul consolidamento dei legami non solo con i vicini di casa sudamericani, ma anche e soprattutto con gli Stati Uniti e l’Unione Europea. La strategica posizione occupata dalla Colombia ha favorito, infatti, le mire di aziende straniere, sempre più propense a investire i loro capitali in America Latina e, nello stesso senso, hanno giocato un ruolo fondamentale gli accordi commerciali conclusi nel corso della presidenza Santos. Il risultato è che oggi Bogotà risulta essere il punto focale di una fitta rete economica che, coinvolgendo una pluralità di attori di strategica rilevanza, sta rendendo il Paese protagonista delle relazioni geopolitiche della regione.
Tuttavia è stato proprio il forte avvicinamento commerciale agli Stati Uniti, congiuntamente alla situazione di malcontento provocata dal divario sociale e dalla diseguale distribuzione della ricchezza, a innescare le rivolte che, dal mese di giugno, infiammano il territorio colombiano. Quella che era nata come una protesta portata avanti dalle organizzazioni contadine, si è presto trasformata in uno sciopero nazionale e in un movimento sociale collettivo così radicato da coinvolgere quasi tutte le categorie di lavoratori del Paese: ai coltivatori di caffè, di cacao e di canna da zucchero, si sono infatti uniti produttori di cotone e di bestiame, trasportatori, minatori, studenti, operatori sanitari e diversi esponenti dei sindacati. In particolare, è stato il principale sindacato colombiano, Central Unitaria de Trabajadores, a rilasciare una veemente dichiarazione affermando che lo sciopero in atto in Colombia rappresenta una condanna del modo in cui Santos ha amministrato il Paese e una conseguenza diretta delle sue politiche, considerate inadeguate e antisindacali5.
Come accennato, una delle scintille che ha dato vita al Paro Nacional Agrario è stata l’effettiva applicazione del Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti, entrato in vigore nel maggio 2012. Inaugurando una nuova stagione di politiche agricole neoliberiste, il TLC è accusato di provocare il deterioramento della produzione agraria nazionale a causa dell’aumento dell’importazione di beni alimentari favorito dall’assenza di barriere protezionistiche. In effetti diversi studi6 mostrano come l’impatto del Trattato sui piccoli agricoltori e sulle colture a ciclo breve non risulterebbe affatto positivo: si prevede che circa 400.000 coltivatori, infatti, potrebbero essere colpiti da un calo sostanziale del redditto – stimato attorno al 16% – a causa delle disposizioni contenute nell’accordo stipulato con gli USA. Risulta evidente come una tale prospettiva si tradurrebbe in un incremento di quella vulnerabilità economica che, come si è visto, è alla base dello squilibrio che caratterizza la distribuzione della ricchezza in Colombia.
Alla negativa prospettiva economica si affianca il concreto timore di un’ingerenza sempre maggiore degli Stati Uniti negli affari di Bogotà: l’accordo di libero scambio, infatti, implica un’opportunità unica per gli statunitensi di conquistarsi un “ruolo chiave” nell’equilibrio geopolitico della regione, contrastando, al tempo stesso, l’irruente penetrazione economica della Cina in America Latina. Inoltre i risvolti positivi per gli Stati Uniti non finirebbero qui: secondo la U.S International Trade Commission7, l’applicazione del Trattato avrebbe effetti anche sulla bilancia commerciale nordamericana, incrementando il prodotto interno lordo di ben 2.500 miliardi di dollari l’anno. Dunque quella che Obama, in occasione dell’approvazione del TLC al Vertice di Cartagena, aveva definito “a win for both countries”, sembra tradursi in una ripartizione iniqua sia in termini di benefici sia, soprattutto, in termini di costi.
Sebbene la protesta abbia assunto carattere nazionale e sia radicata in maniera piuttosto uniforme per tutto il territorio colombiano, una delle regioni maggiormente coinvolte nel “paro” è il Catatumbo. Situata nel dipartimento di Norte de Santander, nel nord-est del Paese, tale zona risulta essere di fondamentale interesse geopolitico e geoeconomico sia per la prossimità con il Venezuela – nonchè con il lago di Maracaibo e i suoi giacimenti di petrolio -, sia per le risorse naturali di cui il territorio è particolarmente ricco. I numerosi depositi carboniferi e petroliferi, infatti, hanno da sempre attratto un elevato numero di imprese nazionali e multinazionali: fu la Concesión Barco, all’inizio del secolo scorso, a dare avvio allo sfruttamento minerario dell’area attraverso il contratto stipulato con la statunitense Gulf Oil, pochi anni dopo rilevato dalla Texas Petroleum Company e dalla Mobil Oil.
Oggi i principali interessi si concentrano attorno all’estrazione del carbone a cielo aperto, una delle attività che genera il maggior impatto ambientale e sociale ai danni dell’ambiente e delle comunità che abitano il territorio. Ben otto imprese canadesi, messicane e colombiane (Compañía Río de Oro, Compañía Minera la Esmeralda, Promexco, Sopromni, Carbo Fuels and Minerals, Prominorte, Geofisi Eu, Mora y Mora Multinversiones Mineras, Carbón y Progreso) hanno recentemente ottenuto la licenza per l’esplorazione e l’estrazione congiunta di 25.000 ettari di terreno, licenza acquisita senza un previo processo di consultazione con la popolazione del luogo, composta prevalentemente dalla comunità indigena Barí che da tempo lotta per la salvaguardia del territorio reclamando il rispetto dei propri diritti collettivi8</.
Al malcontento dei popoli originari si è sommato quello dei campesinos del Catatumbo che sono scesi in piazza in migliaia, scatenando l’ondata di proteste che sta minando la stabilità del Governo. La comunità contadina del luogo è una delle più indigenti della Colombia in quanto ha risentito particolarmente delle politiche poste in essere dallo Stato negli ultimi anni: nel 1999, infatti, l’Operación Catatumbo provocò la morte di centinaia di civili e il desplazamiento di più di 20.000 persone9. Tale operazione militare aveva, in teoria, lo scopo di impadronirsi di una zona – che si diceva essere controllata dalle FARC – particolarmente attiva nella lavorazione e nel commercio della coca. Tuttavia, in breve tempo, ci si rese conto che la motivazione principale della manovra consisteva nell’appropriarsi di superfici che avrebbero potuto rappresentare una grande risorsa economica: per via della varietà climatica e delle particolari proprietà del suolo, infatti, le terre abbandonate dai contadini in seguito all’Operación Catatumbo si sarebbero rivelate estremamente proficue e produttive e avrebbero potuto fornire nuova linfa all’economia colombiana. Testimonianza di ciò è stata effettivamente offerta dalle redditizie monoculture di palma da olio africana, utilizzate per la produzione industriale di agrocombustibili, che sono state installate sul territorio e che oggi si estendono per migliaia di ettari.
Analizzati tali precedenti, appare evidente come, nel giro di un decennio, la situazione sia diventata insostenibile per le comunità del Catatumbo: attualmente le richieste degli agricoltori sono volte a ottenere la riprese delle trattative, avviate nel 2009 durante il mandato di Uribe, per la realizzazione nella regione di una Zona de Reserva Campesina (ZRC): tale figura giuridica, disciplinata dalla Legge n° 160 del 1994 e dall’Accordo n° 28 del 199510, è stata istituita con il duplice scopo di bilanciare la distribuzione delle terre (prevenendo la concentrazione della proprietà) e promuovere un impiego produttivo di terreni scarsamente utilizzati.
Al tempo stesso i 15.000 campesinos scesi in piazza rivendicano un piano di interventi agricoli in grado di bloccare lo sradicamento delle piantagioni di coca, forma obbligata di sostentamento e unica attività in grado di rispondere alle necessità economiche di una comunità completamente depauperata. Come dichiarato da Gilma Tellez, rappresentante dell’ASCAMCAT (Asociación Campesina del Catatumbo), a pochi giorni dall’inizio delle proteste:
“No es ningún secreto que en la región vivimos del cultivo de coca, pero hace tres meses el Gobierno mandó erradicadores sin ninguna alternativa, la gente ahora no tiene con qué comer”.
Due, dunque, i punti focali attorno a cui si snodano le proteste dei catatumberos: attuazione di ZRC in grado di dare impulso all’economia rurale e ricerca di una concreta alternativa alla coltivazione della coca. Tali istanze hanno agito da cassa di risonanza per portare alla ribalta il malessere di un’intera popolazione che, al grido di “Catatumbo somos todos” (Catatumbo siamo tutti), si sta riversando da mesi nelle strade dando vita a una delle più energiche e solide potreste sociali che abbia mai coinvolto la Colombia.
A quanto pare, infatti, le politiche intraprese dal Presidente Santos – incarnate dal Piano Nazionale di Sviluppo 2010-2014 “Prosperidad para todos” (prosperità per tutti) – non sono ben vedute: i 195 miliardi, investiti nel Piano per armonizzare la crescita economica e incrementare il settore agricolo e quello energetico, non si sono tradotti in un miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini né hanno inaugurato una nuova stagione di prosperità finanziaria e sociale. Viceversa, lo sciopero nazionale ha sancito il fallimento di una politica neoliberista che, anziché puntare sulla partecipazione degli strati più deboli della società colombiana e assicurare investimenti nel campo dei servizi pubblici, dell’istruzione e della sanità, si è preoccupata solo di garantire e giustificare la presenza di multinazionali sempre più radicate nel territorio e sempre più impegnate a ritagliarsi un ruolo di protagoniste all’interno della regione.
Nel frattempo, mentre si moltiplicano gli appelli di solidarietà alla popolazione colombiana, la leadership di Santos è sempre più a repentaglio: nonostante in un primo momento avesse tentato di sminuire la portata della protesta, presto Palacio de Nariño ha compreso la necessità di fronteggiare la situazione e di fornire risposte concrete. Viste le recenti dichiarazioni, infatti, il Presidente colombiano sembra essere pienamente cosciente delle difficoltà che il suo Paese sta affrontando11:
Sin duda alguna, estamos atravesando por una tormenta; una tormenta que se formó por la acumulación del abandono y de falta de políticas en el sector agropecuario durante muchísimo tiempo. Y ahora estamos pagando las consecuencias. Y eso es lo primero que tenemos que reconocer. Hay una crisis en el sector agropecuario. Los campesinos son los que más han sufrido ese abandono, los campesinos que están protestando. Protestas legítimas, protestas que tienen muchos argumentos, protestas válidas. Pero por eso mismo, porque los campesinos y el sector ha estado abandonado durante décadas, es que nosotros desde el primer día del Gobierno hemos querido concentrarnos en el sector rural, darle importancia, porque, entre otras cosas, ahí está concentrada la pobreza y la desigualdad.
Ciò che è certo è che alla consapevolezza e alla prudenza ostentata negli annunci ufficiali, non ha fatto eco un altrettanto saggio e ponderato atteggiamento quando si è trattato di sedare il malcontento popolare. Una completa militarizzazione di Bogotà e un dispiegamento eccezionale di forze armate hanno rappresentato la risposta più concreta che il Governo ha saputo fornire finora. Sebbene dei primi, seppur timidi, tentativi di negoziati stiano faticosamente iniziando a farsi strada, il bilancio della protesta appare drammatico: come denuncia la Comisión Nacional de derechos humanos de la Mesa Nacional Agropecuaria y Popular12, la repressione di cui è stato oggetto il movimento colombiano si è risolta – in soli venti giorni – in ben 660 casi di violazioni dei diritti umani, 262 arresti arbitrari, 485 feriti e 15 morti.
La risposta autoritaria dell’attuale amministrazione, portando alla luce l’incapacità di rispondere alle crisi con mezzi civili e democratici, è la principale causa della perdita del consenso che si sta verificando attorno a Juan Manuel Santos, il cui indice di gradimento è precipitato di quasi trenta punti in pochissime settimane. Dato rischioso, quest’ultimo, soprattutto in vista delle elezioni presidenziali del maggio prossimo. Ormai, infatti, la sorte di Santos non è più legata solo al successo dei negoziati con le FARC: la fase che attraversa la Colombia oggi è pericolosamente simile a quella dell’Ecuador nel 2006, quando le proteste indigene e contadine, congiuntamente alla grave crisi economica allora in atto, spianarono la strada alla vittoria di Rafael Correa inaugurando un nuovo corso per la politica ecuadoriana.
Se vorrà riconfermare il proprio mandato, dunque, Santos dovrà fare del suo meglio per sedersi al tavolo delle trattative con tutte le categorie sociali coinvolte nel “paro”, cercando di dare vita a un dialogo che sia realmente costruttivo e in grado di risollevare le sorti dello Stato. Tuttavia, al di là delle previsioni elettorali, la sfida che dovrà fronteggiare il futuro establishment di Bogotà – di qualunque colore esso sia – sarà complessa e, purtroppo, nient’affatto immediata: una sfida il cui obiettivo consisterà nel promuovere un modello di pace positiva in grado di assicurare al popolo colombiano quel benessere collettivo, quella dignità e quella giustizia sociale che decenni di tensioni hanno negato.