La rivoluzione che serve al calcio

Creato il 11 agosto 2014 da Fabio1983
È il giorno. Salvo sorprese i 278 delegati eleggeranno lunedì 11 agosto il nuovo presidente della FIGC, uno tra Carlo Tavecchio e Demetrio Albertini (più Tavecchio che Albertini, stando ai numeri previsti). Nei giorni scorsi tutto è ruotato attorno all’infelicissima battuta di Tavecchio a sfondo razzista, una frase che da sola sarebbe dovuta bastare per ritirare la candidatura. Non si tratta di una esclusiva questione dialettica, è un fatto di principio: Tavecchio, se sarà lui, dovrà essere in grado di far riemergere il calcio italiano dalle proprie ceneri. E chi è chiamato a ruoli delicati deve mantenere un comportamento irreprensibile. Sempre. L’urgenza ora è dettata da un fattore esclusivamente sportivo: la delusione al recente mondiale brasiliano. C’è molto di più, ovviamente: riformare il calcio significa innanzi tutto mettersi a pari con un’esigenza di cambiamento che investe diversi settori del sistema Paese. La legge sugli stadi, per dirne una, è ancora lacunosa e stenta perciò a decollare. Laddove la politica rallenta, di certo il massimo organismo del calcio italiano non aiuta. Il calcio, così com’è, frutta già parecchio (i numeri sono di un paio di anni fa, in verità): quello che definiamo sport nazionale “muove” nove miliardi di euro per un giro d’affari stimato – incluso l’indotto – al 5,7% del Pil, dà lavoro a circa 500 mila persone e versa un miliardo e 30 milioni di euro allo Stato come contributo fiscale e previdenziale. Parliamo tuttavia di un traino che è appannaggio della passione dei tifosi, e chissà ancora per quanto, e poco più. Nel calcio, come in altri settori, si è smesso di innovare (non è una crociata pro i vivai e contro i giocatori stranieri, ma un fatto di razionalizzazione e valorizzazione del capitale umano, dai giovani calciatori fino ai dirigenti e alla classe arbitrale) relegando il nostro movimento alle ultime posizioni dell’élite europea – strutture fatiscenti che il più delle volte non rispettano le normative europee, ad esempio –, nonostante una Seria A capace di affascinare gli sportivi (ma non di attrarre gli investimenti esteri). È qualcosa che va oltre l’immagine e oltre un mondiale vinto o perso nel peggiore dei modi. Al calcio italiano serve una rivoluzione finanche culturale.
(anche su T-Mag)

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