La scrittura può essere considerata, tra le altre cose, una reazione alle emergenze tanto della storia quanto della cronaca individuale, uno spazio di azione quando il palco della realtà, insieme ai suoi attori, sembra incaricarsi di un allontanamento inspiegabile e subìto. Le emergenze diventano intollerabili e la lingua sviluppa una resistenza. Dall’attrito che si produce tra le intenzioni e il risultato scritto prende corpo, letteralmente, l’espressione.
Per essere più stringati, e nemmeno poi tanto imprecisi, l’espressione può essere un rendimento di grazie o una denuncia di scacco.
La scrittura di Greta Rosso si colloca sulla seconda delle due direttive. La sua prima raccolta, Cronache precarie, era incentrata sulla registrazione degli avvenimenti individuali senza mai correre il rischio dell’elegia o del narcisismo; cercava di porre l’accento sull’accostamento degli eventi, non sulla reazione tra gli avvenimenti e una loro qualsiasi lettura. Tutto questo, è importante ripeterlo, in una nitida e voluta mancanza di tentazione crepuscolare.In assenza di cifrari, uscita per Lietocolle a distanza di tre anni dal primo libro, terzo posto ex aequo al Premio Baghetta, l’occhio di Rosso si è spostato in modo naturale e perentorio dal fatto, dall’impulso emotivo, o riflessivo, al come, al tentativo di un perché, alla ricerca di una ragione. Una ricerca subito abbandonata.
Il titolo stesso nega e asserisce. Le due parole che lo compongono, assenza e cifrari, sembrano tradire la ricerca delle cause (i cifrari, le chiavi di decodifica) e sottolinearne la lontananza (l’assenza). Questo è il primo punto fermo di una scrittura che in queste nuove pagine si mostra più articolata, appare in forme che danno la sensazione di volere dialogare tra loro, nelle sei sezioni che costruiscono il libro, senza riuscirci. Meglio: senza tentare di riuscire.
Che l’assenza di cause sia data quasi come una certezza, una certezza priva di nostalgie, lo dimostra la prima sezione della raccolta, intitolata con composta ironia Altri livelli. Le poesie che si leggono in questo primo movimento sono brevi, non superano i tre versi, sono scandite dalla sentenziosità di chi ha deciso quali vie non intraprendere più: Di quello che restava / ho avuto la pece. / Raramente ora assorbo. La perentorietà di certe conclusioni gnomiche, così domestiche e individuali, non dà scampo: Non mi piace parlare di poesia / alla poesia preferisco le cose / anche solo sudore, calcinacci. Si accettano gli avvenimenti come puri dati, impassibili e impermeabili a qualsiasi logica: Il mio margine è solo il mio margine. / Non lo do in pasto e non lo celebro. E non potrebbe essere più significativo il fatto che il distico apra la terza sezione della raccolta, intitolata Sé. Se non c’è interpretazione, o se la volontà di ricerca non muove in questa direzione, non resta che accettare quanto accade, prenderne atto e registrarlo: se si chiami amore / o come quello che abbiamo in mezzo alle gambe / che un giorno picchia e l’altro accarezza. Versi che appartengono alla seconda sezione che prende il nome di Cardio. Un nome straniato.
La certezza di questo allontanamento, di questa impermeabilità (tutto continua nel mondo degli umani) si incrina nel corso di due sezioni consecutive, Lia e Storie di Selina. Lo si accennava: le forme dei testi di In assenza di cifrari sono in conflitto tra loro. In Storie di Selina si legge del tentativo da parte di Rosso di rendersi oggetto di scrittura, di allontanarsi ulteriormente per provare uno sguardo d’insieme, come se darsi un altro nome servisse fosse un darsi nuovi occhi, e osservarsi di nuovo per la prima volta. Rosso scrive di avere sognato Selina, le parla, e decide di darle corpo. E Selina, in poesie che in sezione diventano brevi racconti, prende anche voce, diventa prima persona.
Ma anche questo tentativo di essere personaggio, per potere raggiungersi e conoscersi, viene manomesso. Rosso denuncia la finzione e la disattiva: spiegami cosa possiedo / se scrivo solo perché non ti ho / e se ti ho sono una poesia che Greta scrive. Se uno specchio non permette la riflessione, la comprensione, tanto vale moltiplicare gli specchi, indefinitamente, per perdersi.
Le Poesie a Dio, già apparse on-line prima di essere collocate quasi in chiusura del libro, sono il punto più formalmente riuscito della raccolta. I versi lunghi, con una accentuazione affollata, e le dimensioni stesse di queste poesie raggiungono un grado di articolazione estremamente lucido. E feroce. Si ribatte sulla difficoltà della lingua come strumento di comunicazione (ancora prima che di comprensione), che vale la pena di riportare quasi integralmente: Era l’idioma parlato dagli uomini delle foreste / quando ancora non sapevano di essere gli uomini delle foreste / […] / Dio prese l’idioma e ne fece una ragione, o meglio: / un’assenza di ragione. / […] / Eppure lasciò che si parlasse. E fu un delitto. Non si potrebbe essere più diretti e disarmanti. E si deve tenere conto del fatto che questa poesia è intitolata Genesi. La nascita di una lingua che rinnega se stessa.
E cosa rimane, quando i dispositivi linguistici passano in giudicato, quando la loro carica simbolica viene depotenziata? Cosa resta dopo l’ironia? Resta il sarcasmo: I giovani poeti / hanno sempre successo / comprano casa, diventano padri / sanno essere relatori / smettono in realtà presto di essere giovani / Continuano però a dirsi giovani / come facendo parte di una corporazione / a statuto speciale. E resta tutto il rovescio, la trama, di una sensibilità così urticata. Un rovescio ancora tutto da scrivere.