di Antonio Scarazzini
L’ora dei compiti a casa
Dal Rapporto finale e dal Protocollo di ingresso [1] licenziati dal Gruppo di Lavoro si evincono i committments, i traguardi da conseguire in un intervallo temporale che, a partire dalla data ufficiale di adesione, varia a seconda dei settori interessati; frutto di combattuti negoziati bilaterali, gli obblighi assunti dalla Russia rispondono per la maggior parte alle pressanti richieste di Stati Uniti ed Unione Europea, primo partner commerciale cui è destinato circa oltre il 45% delle merci russe, su un interscambio complessivo che nel 2010 ha toccato i 244 miliardi di euro.
E’ soprattutto grazie ai due principali accordi bilaterali che la Russia realizzerà una riduzione del dazio medio sulle merci importate dal 10% del 2011 al 7,8%. Gli adeguamenti verranno realizzati per la maggior parte dei settori merceologici entro tre anni dall’ingresso ma, in forza di considerazioni di politica sociale e della rilevanza di alcuni settori industriali, sono previste alcune significative dilazioni.
E’ il caso del già citato settore automobilistico, che rispetto alla tariffa media del 7,3% applicato ai beni manifatturieri importative, per cui lo Stato avrà a disposizione ben sette anni per ridurre i dazi dal 15,1 al 12%. In temporanea deroga alle norme TRIMS sulla protezione degli investimenti esteri, inoltre, si avvertiranno fino al 2018 gli effetti del piano di rilancio del settore avviato nel 2005 e particolarmente contestato dai competitors europei, i più attivi sul mercato russo e interessati (è il caso di Fiat e Renault-Nissan) ad investire. Sino a questo momento, infatti, i produttori esteri localizzati in Russia si vedono assoggettati a stringenti requisiti (produzione minima di 350.000 veicoli annui, impiego di almeno 60% di componenti di origine russa, obbligo di costruire impianti di ricerca) per usufruire di una riduzione dei dazi sulla componentistica importata.
In campo agricolo, i dazi sui prodotti esteri verrano mediamente ridotti dal 13,2 al 10,8% e, anche in questo caso, non mancano concessioni particolari: come previsto il tetto massimo di sussidi diretti e distorsivi del mercato (i cosiddeti amber-box subsidies) verrà ridotto, ma ci sarà tempo sino al 2018 per operare il taglio dagli attuali 9 miliardi di dollari annui ai 4,4 previsti dagli accordi. Tempi molto lunghi, sino a otto anni, sono previsti per la revisione delle quote annue di importazione di capi di allevamento (e delle rispettive tariffe applicate).
Dalle trattative con gli Usa, in particolare, emerge poi il pacchetto di riforme nel settore dei servizi, fondamentale per adeguare la Russia agli standards internazionali e renderla progressivamente appetibile agli occhi delle grandi corporations. Il settore bancario consentirà ora ad holding estere di acquisire il pieno controllo di istituti bancari russi ma entro il limite del 50% del settore nel suo complesso. Viene concessa libertà di azione nella fornitura di servizi di pagamento e di conto corrente ma l’amministrazione non ha ceduto il passo sul “branch banking“: gli istituti esteri non potranno infatti aprire filiali dirette sotto il controllo della holding, ma solo società sussidiate assoggettate alla vigilanza della Banca Centrale. In compenso vengono completamente aperti alla partecipazione estera i servizi professionali e le attività di distribuzione e commercio al dettaglio.
Solo parziale, infine, la risoluzione della questione dual pricing, la cui criticità si è andata affievolendo sulla scia del calo dei prezzo del gas a livello mondiale: per le fornitura ad industrie il gas verrà fornito a prezzi tali da non costituire indebito sussidio e permettere agli operatori di pareggiare costi e ricavi. Per ciò che riguarda le famiglie e le utenze non commerciali, la Stato rimane invece libero di fissare il prezzo secondo le esigenze sociali.
C’è infine qualcosa che non può emergere dai rapporti del WTO e che, tuttavia, è caduto sotto la lente d’ingrandimento dell’Ocse nella sua ultima Economic Survey: corruzione e sistema giuridico inappropriato non sono ancora in grado di garantire piena tutela degli investimenti che pure sono necessari per ottenere il necessario know-how e la confidenza con gli standards produttivi internazionali. La burocrazia (il famigerato red tape) scoraggia l’avvio di nuove attività e guardando al Rapporto Doing Business spaventano i 423 giorni necessari ad ottenere permessi di costruzione. Non stupisce che nella classifica redatta dalla Banca Mondiale la Russia sieda mestamente al cento ventesimo posto. Rappresentanti del Cremlino siedono con quote di maggioranza nei CdA di oltre il 60% delle imprese a partecipazione statale ed è ragionevole dubitare sulla libera concorrenza quando le trenta maggiori imprese contano per oltre il 40 % del PIL.
La maratona è davvero finita ?
Non ha lesinato metafore con il mondo dell’atletica, il Direttore Generale Pascal Lamy, per raccontare gli istanti finale del più lungo ed estenuante processo di adesione che l’organizzazione possa ricordare; l’aveva definita“una maratona di 18 anni” annunciando, a metà dello scorso dicembre, l’approvazione da parte dell’ottava conferenza Interministeriale del Report frutto di oltre trenta riunioni del Working Party. Ha parlato, infine, di ultimo ostacolo superato quando ad inizio del mese di luglio la Duma, camera bassa del Parlamento russo, ha ratificato il protocollo d’ingresso, attendendo la controfirma presidenziale per sancire il definitivo approdo nella “famiglia del commercio mondiale”. [2]
Dall’ingresso della Cina nel 2001, la Russia era la sola grande economia emergente rimasta fuori dall’arena WTO. Parallelismi con il percorso compiuto da Pechino sono utili per confutare le sfide, tanto quelle economiche quanto quelle sociali , raccolte da Mosca.
Per quanto paradossale se riferito alla prima potenza commerciale mondiale, la Cina non vedrà riconosciuto sino al 2016 lo status di economia di mercato ed è tuttora sottoposta ad una disciplina transitoria particolarmente stringente se non discriminatoria da parte di Usa e Unione Europea. Sulla via della crescita armoniosa, Pechino ha tuttavia saputo capitalizzare al meglio la sua membership assimilando le consuetudini giuridiche e traendo giovamento dalla vastità dei mercati a disposizione delle proprie merci. Con un sistema di esportazioni ed importazioni che sino agli anni ’80 si trovava ancora invischiato tra quote e licenze governative, Pechino ha governato con gradualità l’apertura del proprio mercato a merci ed investimenti esteri, ricercandone il massimo ritorno tecnologico per compensare l’inevitabile svantaggio per quelle aziende che si fossero ritrovate incapaci di competere sui mercati mondiali. Più in generale si può affermare che i vertici del Partito Comunista di integrare nell’economia cinese gli incentivi del capitalismo, compresa dunque la liberalizzazione dei commerci, all’interno delle strutture nazionali di political economy riuscendo nell’intento di conciliare alcuni tratti salienti – anche i più contestabili – della struttura amministrativa (competizione fra livelli burocratici, potere agli organi locali di partito, tolleranza della corruzione) con la massimizzazione del profitto e la soddisfazione di quei livelli di crescita imposti da Pechino. Crescita che nel corso di un decennio ha virato dal traino dell’ export alla liberalizzazione del mercato interno e del sistema finanziario. [3]
Il Fondo Monetario rileva nel suo ultimo Report che, malgrado una crescita media superiore al 5% tra 2001 e 2011, il PIL pro capite rimane inferiore ai livelli precedenti al default del 1998 e, con il greggio attestato ben al di sotto dei 100 dollari per barile, non sono bassi i rischi a breve termine per lo sviluppo di un’economia troppo concentrata in pochi settori. Sta ora a Vladimir Putin conferire reale progettualità alla sua politica economica e dare forza ad idee innovative come il Technopark di Skolkovo, una sorta di Silicon Valley nei dintorni di Mosca, destinata ad attrarre multinazionali, università e start-up grazie a sovvenzioni pubbliche per la ricerca.
Dell’esperienza cinese, come detto, si può apprezzare l’originalità di un modello che ha installato i germi della crescita capitalistica su strutture apparentemente incompatibili: difficile dire altrettanto del capitalismo di Stato di marca russa, dove la libertà di impresa ha fatto troppo spesso rima con l’oligarchia di pochi businessmen legati al Cremlino. Al suo terzo mandato da presidente della Federazione, Putin è tornato a parlare di un’economia da modernizzare, di lotta alla corruzione e privatizzazioni. Proprio come dodici anni prima, dopo la sua prima elezione. Le storture del sistema economico rimangono pressoché le stesse di allora e, in tempi di Grande Recessione, gli investitori mondiali potrebbero non attendere altri diciott’anni.
*Antonio Scarazzini è dottore in Scienze Internazionali (Università di Torino)
[1] Entrambi i documenti sono disponibili a questo indirizzo nel database WTO Russian Federation
[2] WTO Press Relaeses http://www.wto.org/english/news_e/sppl_e/sppl213_e.htm
[3] Per un approfondimento sull’argomento si veda Giuseppe Gabusi “L’importazione del capitalismo”, Edizioni Vita & Pensiero, 2009