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LA SCIENZA ….. AH LA SCIENZA! di GLG

Creato il 14 settembre 2015 da Conflittiestrategie

1. Marx, “ingenuamente”, era convinto (almeno quando scrisse l’“Introduzione a Per la critica dell’economia politica” nel 1857) che la teoria scientifica “riproducesse il concreto nel cammino del pensiero”. Assurdo, visto che lui stesso parlava di astrazione scientifica. L’astrazione implica semplificazione, cioè allontanamento dalla complessità del (presunto) concreto reale. Era appunto presunzione immaginare che la scienza rappresentasse tale concreto reale; in ogni caso, se anche avesse potuto farlo, avrebbe operato astraendo dalla sua complessità, semplificando il concreto in questione. Marx apportò all’economia classica (Smith, Ricardo) una distinzione decisiva: quella tra lavoro (fonte del valore dei beni prodotti, pensati come “coagulo” di un certo tempo di lavoro, per di più “semplice”; il complesso essendo ridotto ad un multiplo del semplice) e forza lavoro, la potenzialità (capacità) di lavorare insita nei muscoli, nervi e cervello dell’uomo.

Nel capitalismo, tale forza lavoro diventa merce come ogni altro bene circolante nel luogo detto appunto mercato, dove si incontrano i due soggetti interessati allo scambio d’essa: il compratore (capitalista, proprietario dei mezzi di produzione che abbisognano della forza lavoro per essere messi in moto in un’attività utile) e venditore che deve cederla (ma non tutto se stesso come essere umano) per poter avere di che vivere in quelle date condizioni storico-sociali. L’astrazione scientifica prescinde proprio da ogni possibile attrito nello scambio tra i due contraenti. La contrattazione avviene in condizioni di parità (supposizione per astrazione, tipica della scienza che tutto deve semplificare per individuare la cosiddetta “Legge”). Lo scambio avviene, in un certo senso, allo stato “puro”, senza esibizione di forza, inganno, raggiro, ecc. Tutto è chiaro e luminoso, tutto avviene in uno stato di perfetta eguaglianza e parità di ogni altra “condizione al contorno”; per cui la forza lavoro non può che scambiarsi nel mercato al suo valore; il prezzo (salario) è per l’appunto eguale al valore, cioè al lavoro speso nella produzione dei beni necessari al mantenimento del possessore della merce in oggetto nelle suddette condizioni medie di quella data epoca storica della formazione sociale capitalistica.

Una volta individuata la “Legge” – tramite astrazione, cioè semplificazione, eliminazione di ogni disturbo della complessità reale del rapporto tra i due contraenti – si può fare riferimento a detta complessità, allo scontro tra i due soggetti scambiatori, ai rapporti di forza reciproci, al loro riunirsi in collettività atte alla lotta (sindacati in definitiva), ecc. per cui allora il prezzo effettivo della merce forza lavoro oscilla intorno al suo valore. Tuttavia, si può parlare di questa effettiva oscillazione del salario solo dopo aver individuato la “legge” dello scambio senza che nulla intervenga a turbare la reciprocità degli interessi dei due contraenti: lo ripeto, necessità per il compratore di non lasciare inattivi i mezzi produttivi di sua proprietà; necessità del lavoratore di vendere l’unica cosa che possiede.

Nel mercato del primo capitalismo pienamente realizzatosi, cioè di quello uscito dalla prima rivoluzione industriale, la competizione è intrinseca più che altro ai vari capitalisti che cercano di innovare nei processi produttivi per abbassare i costi di produzione e battere così i concorrenti. Da questa tendenza, insita nel conflitto concorrenziale, consegue la crescita del cosiddetto plusvalore relativo – riduzione del lavoro (“lavoro necessario”) impiegato per produrre i beni indispensabili al mantenimento e riproduzione della forza lavoro con conseguente aumento (nella giornata lavorativa) del tempo rappresentante il pluslavoro (plusvalore) – con introduzione di nuove tecnologie (innovazioni di processo) che non sempre rappresentano uno svantaggio per i salariati; talvolta intensificano i ritmi lavorativi, ma altre volte (si pensi alla “qualità totale” alla Fiat negli anni ’80; ad es. al robogate) li riducono e rendono più agevole il lavoro in fabbrica con minore dispendio di energie fisiche e nervose (non c’è sempre il Charlot di “Tempi moderni”).

La lotta tra capitalisti e salariati si sviluppa soprattutto sui tempi lavorativi (se questi peggiorano in durata e intensità), sulla distribuzione del prodotto tra profitti (plusvalore) e salari, sulle cause e motivazioni di eventuali licenziamenti, ecc. Non si tratta di un conflitto (rivoluzionario) per la trasformazione dei rapporti capitalistici, bensì solo per la distribuzione del prodotto e dei carichi lavorativi, per le occasioni di lavoro, ecc. E’ un conflitto in cui, anzi, la normale riproduzione di quel sistema ormai dato di rapporti sociali favorisce le opportunità, anche per i salariati, di ottenere successi, ma sempre in quell’ambito “distributivo”. Ovviamente, quando si è stabilizzato il passaggio, quasi sempre tumultuoso, dalla condizione contadina in campagna alla vita della fabbrica e della concentrazione urbana.

In questo passaggio si è avuto il grande errore dei marxisti (e comunisti) di credere nella intrinseca rivoluzionarietà della classe operaia; anche perché – accanto a questo inasprirsi del conflitto per la prima “congestione” indotta dal rapido cambiamento del modo di vivere (dalla campagna alla città) – vi era la “teoria” che dimostrava come una parte del lavoro operaio (del salariato) andasse appropriato dal capitalista come profitto (parte del plusvalore, cioè del pluslavoro). Pratica e teoria sembravano andare a braccetto nell’indicare l’inasprirsi del conflitto e della sua irrimediabilità in mancanza della rivoluzione. Errore protrattosi per oltre un secolo poiché i primi “adattamenti” della presunta classe operaia alla riproduzione dei rapporti capitalistici (ad es. in Inghilterra) furono presi come il formarsi di una sedicente “aristocrazia operaia” favorito dallo “sfruttamento” delle colonie.

2. In definitiva, nel capitalismo di cosiddetta concorrenza il conflitto principale (che esige anche alleanze tra capitalisti e l’intervento “regolatore” della sfera politica), cioè la cosiddetta lotta di classe (tra borghesia e proletariato, cioè tra proprietà dei mezzi produttivi e lavoro salariato), può cedere il posto a forme di subordinato scontro per la distribuzione, tra salario e profitto, del maggior prodotto ottenuto tramite quelle innovazioni tecnico-organizzative (di processo) provocate appunto dalla concorrenza intercapitalistica.

Quando, tramite il conflitto che elimina molti capitalisti dal mercato, si arriva a quella forma dello stesso detta oligopolio (o, per semplificazione imprecisa, monopolio), sia la scienza detta borghese che il marxismo hanno pensato ad una attenuazione della competizione intercapitalistica, a forme di accordo tra grandi mono-oligopolisti. Per cui sarebbe dovuto risultarne enfatizzata la lotta di classe tra capitale e lavoro. L’accordo suddetto non avrebbe comportato più riduzioni di prezzo e dunque un abbassamento del costo della vita. Costi ridotti per eventuali – anche se meno frequenti – innovazioni con prezzi invece non calanti avrebbero consentito la crescita dei profitti (sovraprofitti di monopolio). Allora si sarebbe dovuta accentuare la lotta dei salariati per accedere a retribuzioni più alte cioè all’attribuzione pure a loro di una parte dei maggiori margini esistenti tra prezzi (monopolistici) e costi in riduzione.

In ogni caso, si tratterebbe di lotta redistributiva e non trasformativa (“rivoluzionaria”) dei rapporti di produzione di forma capitalistica. Inizialmente può accadere che il salariato veda peggiorare le sue condizioni di lavoro (ad es. intensificazione dei ritmi, maggior dispendio di energie fisiche e nervose) a causa delle innovazioni di processo; e nemmeno sempre così accade. Se però accade, la lotta dei lavoratori assume pure un carattere di freno all’innovazione, la quale tuttavia alla fine supera ogni ostacolo. Una volta vinta ogni resistenza, il tutto si sposta sullo scontro in merito alla distribuzione della più alta differenza tra prezzi (inalterati) e costi (diminuiti con l’innovazione), nel caso che questa determini sul serio maggiori guadagni per l’impresa oligopolistica.

Con il suo intuito come al solito geniale, Lenin si accorse che in realtà il monopolio (la prima caratteristica dell’imperialismo secondo la sua interpretazione) non era altro che “concorrenza portata ad un più alto livello”. Non ne trasse tutte le conseguenze teoriche che avrebbero mutato la stessa pratica dei comunisti; mi pare di poter dire che non era in grado di arrivare a tanto in quella data fase storica di guerra mondiale, di rottura netta e irreparabile tra comunisti e socialdemocratici, ecc. Oggi possiamo vedere gli “errori”, le interpretazioni troppo rudimentali e semplicistiche, l’incapacità di fare i conti con una tradizione marxista già allora in fase di obsolescenza abbastanza avanzata. A quel tempo ciò era impossibile. Non lo era invece, io credo, dopo la seconda guerra mondiale, ma noi marxisti eravamo incancreniti in una teoria divenuta ideologia, cioè credenza sclerotizzata e simile ad una fede religiosa; di quelle cieche e fanatiche per di più. La sconfitta era segnata ed è stata ampiamente meritata.

In realtà, il mono, cioè oligopolio, vedeva una serie di grandi imprese in lotta ancora più acuta, proprio perché si trattava di colossi, quasi di piccoli Stati. E la caratteristica fondamentale – tra le cinque indicate da Lenin – sarebbe dovuta essere non la prima, bensì proprio l’ultima: la lotta delle grandi potenze per le sfere di influenza. Pure il conflitto tra oligopoli veniva assimilandosi a questo tipo di lotta. Il massimo profitto – scopo ultimo, non soltanto per il marxismo, del capitalista – è soltanto uno degli obiettivi; ed anzi, alla fine, nemmeno il principale e comunque difficilmente “massimo”. L’idea di questo massimo profitto nasceva dalla vecchia impostazione del capitalismo di concorrenza tra una miriade di tante unità produttive dello stesso prodotto similare. E nasceva dall’incomprensione dei nuovi settori produttivi che il capitalismo – alleatosi con la scienza, capace di tradursi da teoria ad applicazioni tecniche, a nuove strumentazioni – sarebbe andato escogitando in modo sempre più accelerato.

In Marx vi sono quasi solo innovazioni di strumenti più potenti e precisi, mossi da energie meccaniche e non dal braccio dell’uomo; nonché frequenti riorganizzazioni dei processi lavorativi (in senso stretto) in industrie considerate fondamentalmente nel loro essere fabbriche, opifici. Egli ha visto lo sviluppo delle ferrovie, della prima industria chimica, ecc. Tuttavia, le innovazioni da lui prese in considerazione sono essenzialmente quelle di processo (lavorativo appunto), quelle che abbassano i costi di produzione di un dato bene e conducono quindi l’innovatore a ridurre il prezzo del bene battendo gli avversari ed eliminando coloro che sono troppo in ritardo rispetto all’innovazione in questione. In questo caso, può sembrare che il capitalista (non ancora imprenditore) persegua il massimo margine di differenza tra ricavi e costi, tra entrate e uscite; in ultima analisi, il massimo profitto appunto.

Manca in realtà la considerazione dell’innovazione di prodotto, quella che apre vie completamente nuove, nuovi interi settori produttivi; proprio con la collaborazione di scienza e tecnica. E non vi è la consapevolezza che la fabbrica diventa solo una delle parti di un più vasto complesso produttivo, detto non a caso impresa; perché si intraprendono nuove strade, si aprono nuove vie allo sviluppo industriale. Il problema non è soltanto quello di ridurre il costo di produzione. Si tratta di accedere a nuovi ambiti e settori produttivi, di introdurre beni non prima conosciuti, nemmeno immaginati. Si deve ricercare per inventare questi nuovi prodotti. E poi si deve tentare di impedire il più a lungo possibile che altre imprese siano in grado di produrli, si amplia la gamma di tipi di quel prodotto, si allargano le aree mercantili di vendita (e le si difendono, finché possibile, dall’accesso di altri). Il problema centrale non è quello di accordarsi per tenere alti i prezzi dei beni, di modo che la spinta all’innovazione (di processo) tenderebbe a spegnersi; questa la tesi delle varie teorie sull’oligopolio (anche in Schumpeter, tanto per dire un nome diverso da quello di autori marxisti). E’ invece meglio puntare a diverse tipologie di quel bene prodotto e soprattutto a diversi tempi di produzione delle stesse onde lanciare successive ondate di vendita del bene a prezzi via via decrescenti man mano che altri accedono a quella produzione.

E quel che conta di più, pian piano, diventa qualcosa di diverso dal semplice nuovo settore produttivo aperto. Pure per quanto riguarda le imprese si deve parlare di sfere di influenza come nel caso delle potenze in lotta. Non c’è infatti solo la concorrenza per la ri-divisione delle rispettive aree mercantili di vendita dei beni (in ogni caso non di tipo territoriale e basta). La stessa “pubblicità” non ha solo aspetti di induzione del bisogno di quel dato bene prodotto nella testa dei consumatori. Per ottenere questo risultato è necessario confliggere nella sfera degli apparati ideologico-culturali (perché i mass media sono apparati del genere). E ci si deve procurare pure l’appoggio di apparati della sfera politica: statale, partitica, ecc. E’ sconsolante leggere oggi di “scandali” con perseguimento penale di certe imprese perché hanno pagato tangenti a interi governi magari di paesi altri. La nostra Eni sarebbe rimasta al palo se Mattei si fosse astenuto da ogni “pagamento” di questo tipo. Semmai diciamo che la “libera concorrenza” nel “virtuoso mercato” ha condotto al suo assassinio (e non solo per i motivi addotti, non solo perché i mandanti sarebbero state le “sette sorelle”, che forse non c’entravano gran che; ma cosa ne sappiamo noi della “virtuosa libera concorrenza”, in mano a incompetenti e a volte corrotti magistrati come siamo?!).

3. Se la lotta fondamentale che si svolge tra le imprese non è solo per la conquista di quote di mercato, ma per l’ampliamento delle sfere di influenza (cui gli stessi mercati sono connessi, ma quasi sempre subordinati), diventa facilmente comprensibile che la sfera produttiva (e soprattutto quella finanziaria) non è quella decisiva per il successo in questo conflitto, che non è soltanto la “virtuosa” concorrenza (così si denomina la competizione di tipo mercantile). Appunto: non esiste la semplice concorrenza – com’è nella testa del liberale ancora fondamentalmente attaccato all’idea della smithiana “mano invisibile” – bensì un acuto scontro che si svolge secondo le modalità della politica nella sua accezione più significativa e più vera: l’approntamento e svolgimento di una serie di mosse, per nulla affatto limitate all’ambito mercantile, allo scopo di vincere gli avversari. I quali non stanno certo fermi a “prendersele”, ma si difendono e contrattaccano, pensando altre mosse in contrasto con quelle dell’attaccante onde respingerne le pretese e tentare di indurre lui alla resa.

Le mosse di ogni soggetto in conflitto, insomma, si intrecciano fra loro, ma nella forma dello scontro, del respingimento dell’attacco altrui e del contrattacco proprio. Ognuno attacca, ma pensa sempre di essere attaccato e di stare in definitiva difendendosi; ed ogni difesa non è però solo il respingimento dell’offensiva altrui, diventa non appena possibile offensiva propria per sopraffare quello che si pensa come attaccante. In genere, invero, c’è sempre un primo attaccante, che spesso si sente però spinto ad entrare in azione per non trovarsi impegnato di fronte all’aggressione dell’altro; si ritiene spesso (non sempre) meglio avvantaggiarsi iniziando il confronto piuttosto che aspettare l’aggressione dell’avversario.

In ogni caso, ogni politica (ogni “complesso strategico”) non può svilupparsi in un solo ambito; può essere che l’urto avvenga principalmente in una delle sfere sociali, soprattutto tenendo conto dei diversi sistemi di apparati che aprono con maggior virulenza al conflitto. In un certo senso, è ovvio che un’impresa tenda ad agire in specie nella sfera economica (produttiva e finanziaria) perché ha qui maggiore “esperienza” (ed è meglio attrezzata in tal senso), mentre magari uno Stato agisce in ambiti differenti, non semplicemente quelli bellici sia chiaro, ma comunque con un tipo d’azione del tutto differente da quello dell’impresa. E così in un confronto ideologico occorrono diverse modalità d’azione e altri tipi di preparazione (culturale, in genere). Tuttavia – che si tratti di impresa, di Stato o partiti, di scontro ideologico, ecc. – sempre di politica si tratterà, sempre di confronto con momenti acuti e meno acuti, con urti diretti e azioni di aggiramento, con tentativi di sfondamento e compromessi per attestarsi su posizioni più difendibili, ecc. Sempre saranno in atto strategie molteplici che si intrecciano, come già detto, per urto, per contrapposizione (più o meno intensa), nel tentativo di sopraffarsi o accontentandosi di conseguire una posizione di vantaggio, di superiorità più o meno manifesta o attenuata (momentaneamente).

E sempre, sia chiaro, si avrà uno scontro di intenzioni diverse (sorrette da idee differenti), ma mai a “mani nude”, cioè mai senza l’utilizzazione di strumenti, anzi di complessi di strumenti, che si sostanziano di apparati vari, con svariate strutturazioni all’uopo adatte, con gerarchie di comando più o meno rigide o invece flessibili. Non certo però assenti, altrimenti non si ha alcuna possibilità di successo di fronte ad un “nemico” organizzato. L’azione anarchica, di massa, è una pura apparenza; se non lo è, il movimento si spegne assai presto, viene disperso da chi è organizzato. Nell’azione “di massa” non si parla certamente di strategia, solo di caos e per di più nemmeno voluto, nemmeno minimamente studiato; dato che vi è pure una “strategia del caos”, che non ha nulla di soltanto improvvisato, di gettato nella mischia alla “va là che vai bene”.

In definitiva, dobbiamo seriamente ripartire dall’analisi delle dinamiche sociali sempre attenendoci al principio che, all’inizio e sopra tutto, c’è la politica, in quanto complesso di strategie in aperto confronto tra di loro; ma dove quest’ultimo non è necessariamente violento (semmai solo “in ultima istanza”, con la chiusura delle altre vie). Si è però tuttavia sempre nell’ambito di un confronto, di un intreccio di azioni di “soggetti” contrapposti che si studiano l’un l’altro nel tentativo di prevalere: nettamente o solo parzialmente, in modo duraturo o invece per un dato tempo (necessario a certi “adattamenti”), ecc. Ogni politica, ogni strategia, formula piani, ma poi deve tenere conto che gli altri rispondono secondo la stessa modalità; e ci si deve studiare reciprocamente, si deve tenere conto delle successive mosse e contromosse.

L’idea marxista della “base economica” – il rapporto sociale di produzione specifico per ogni data forma di società – quale fulcro determinante della stessa; l’idea liberal-liberista del mercato quale struttura principe del capitalismo; sono impostazioni concettuali ormai elementari e superate. Per cui lasciamo perdere il massimo profitto, la virtuosa libera concorrenza, il lato negativo del mono-oligopolio ai fini dell’avanzamento produttivo, ecc. Dobbiamo andare verso una ben maggiore complicazione dei modelli di analisi avente come oggetto precipuo gli sviluppi della società moderna, e in particolare di quella odierna. E dobbiamo, lo ripeterò cento, mille volte, porre al primo posto la politica. Non però quegli apparati (tipo Stato, partiti o lobbies o altri organismi vari) che indichiamo come pezzi o parti della sfera detta politica. Sto parlando della politica, che per me è applicazione di strategie. Secondo quanto intendo io, la strategia non è solo quella bellica; è quella delle mosse e contromosse, di differente natura, attuate con varie modalità in diversi ambiti (l’economico, il politico, l’ideologico) nel tentativo di prendere il sopravvento.

A tal fine, il problema centrale è appunto quello delle sfere di influenza. Non semplicemente le quote di mercato, la conquista (o mantenimento) di ambiti territoriali, l’imposizione di una propria specifica ideologia a popolazioni che ne seguono altre. Non dico che non siano a volte importanti anche tali finalità. Tuttavia, non basta una simile impostazione del problema della supremazia. Simili operazioni potrebbero concludersi con insuccessi clamorosi. Il problema dell’“influenza” è più sottile. Quest’ultimo, in certi casi, potrebbe perfino non essere rilevato apertamente e adeguatamente. La strategia intelligente di un aggressore è a volte quella che scatena la reazione dell’avversario in difesa della propria quota di mercato, della propria autorità su un determinato territorio, della propria cultura e ideologia (e religione). “Costui” (impresa o Stato o sistema ideologico-culturale) non si accorge che in modo più duttile e mascherato, e per vie traverse, l’attaccante ha distratto la sua attenzione, ha indebolito le sue difese, lo ha aggirato e si appresta ad assestargli il “colpo alla nuca”.

Ripartiamo da qui perché incontreremo tanti problemini, strada facendo.


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