A voler essere realisti sul conflitto libico come dar torto alla Lega Nord? "Qualcuno si ciuccierà il petrolio e a noi resteranno i profughi!". A guardare lo scenario politico internazionale come non condividere le perplessità che aleggiano anche a Centro-destra, soprattutto dopo la desolante constatazione di essere solo "i benzinai" di questa "Odyssey Dawn" come la chiamano gli americani, di essere gli hangar e i porti per le truppe della coalizione, di essere quelli che aspettano fuori dalla porta come i cagnolini la fine dei vertici trilaterali tra Francia - Germania e Stati Uniti, scontando così la familiarità pelosa con il Rais in stato di assedio.
Ma il dibattito in queste ore si è allargato, è diventato, come sempre accade in questi casi e senza che il confronto riesca a dettare una linea condivisibile da tutti, il tentativo di sciogliere il dilemma sulla guerra giusta. "C'è una guerra giusta? O tutto ciò che necessità di violenza è ingiusto?" si chiede Armando Torno sul Corriere della Sera di oggi, raccontandoci. attraverso le opinioni sedimentatesi, nella storia come sia sottile il confine tra guerra giusta e ingiusta. Emanuele Severino spiega che di questi tempi la guerra giusta è banalmente solo quella che si vince, perchè la distinzione tra giusto e ingiusto presuppone un'etica viva ma viviamo in un'epoca in cui "la crisi della verità porta con sè la crisi dell'etica". Così ci resta solo la parola "vincere". Il vescovo di Terni Vincenzo Paglia, dal canto suo, osserva invece che: "ogni guerra è una sconfitta. E' una sconfitta della ragione che mostra il suo fallimento. Le armi sono più forti delle parole. Nel caso libico e non solo, non possiamo non esaminare i comportamenti scorretti del passato che hanno indebolito la ragione: c'è quindi bisogno di un serio esame di coscienza. Non si doveva forse intervenire prima? I ritardi non complicano la situazione?".
Ma la guerra è veramente una "difesa necessaria", socialmente giustificata, quando c'è di mezzo un tiranno che spara sul proprio popolo? E' il dilemma che ci attagnaglia da giorni, che divide il mondo politico, che inquieta i pacifisti.
Personalmente penso che non esista "difesa necessaria" se ad essere messa in campo, per dirla con monsignor Paglia, è innanzitutto la ragione, la forza della parola che previene il conflitto e non si limita a giudicarlo a posteriori. E su questo tema (Non si doveva intervenire prima?) anche il mondo pacifista e quel mondo politico che si autocandida a rappresentarlo (penso alla sinistra) forse avrebbe bisogno di fare autocritica, di capire i propri silenzi . Affrontando la crisi libica, una decina di giorni fa "ScienzaePace", la rivista del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace dell'Università di Pisa si chiedeva dove fossero finiti i pacifisti e dove fosse la politica.
""In questi giorni mi domando con crescente angoscia: perché sinistre, movimenti, sindacati, centri sociali, pacifisti e società civile variamente attiva sembrano più che altro indifferenti a quel che sta avvenendo in Libia?". Così inizia un articolo di Pierluigi Sullo pubblicato il 7 marzo su Democrazia Km Zero. Già Walter Veltroni, secondo quanto riportato dal Sole24Ore del giorno prima, si era chiesto polemicamente come mai nessuno scendesse in piazza al fianco dei patrioti libici: “Perché era così facile mobilitare giustamente milioni di persone contro Bush e gli americani per la guerra in Iraq e nessuno prova a riempire le piazze contro il dittatore Gheddafi?”". Questo è l'incipit di un intervento sul tema firmato dal docente universitario Giorgio Gallo, un intervento che punta il dito sulle debolezze del movimento pacifista, un movimento - osserva - che se nel 2003 era stato definito dal New York Times "la seconda superpotenza mondiale globale" si è poi progressivamente accasciato davanti all'innegabile sconfitta di non essere comunque stato in grado di evitare la guerra. Un movimento che, osserva ancora Gallo, non è estraneo a ragionamenti di convenienza a dubbie cautele quando di mezzo c'è un tiranno anti statunitense, anche se questi massacra la propria gente come un deposta qualcisasi.
Giorgio Gallo con lucidità spiega anche: "il movimento pacifista ha al suo interno tante anime, tante tradizioni e tante storie. Anime e tradizioni diverse che riescono a trovare momenti di unità di fronte a situazioni di rottura e di conflitto particolarmente forti, come sono state le due guerre del Golfo, ma nell'impegno quotidiano seguono percorsi diversi. Come scriveva Giulio Marcon in occasione di un seminario sui movimenti per la pace a Barcellona, lo scorso 29 ottobre, “la debolezza del pacifismo – nei momenti di scarsa mobilitazione – sembra più evidente che per altri movimenti sociali: questo forse perché la dimensione della protesta contro la guerra sembra avere (ed è naturale che sia così) una capacità di coagulazione molto più forte della “pace positiva” nella quotidianità dell'azione sociale collettiva. Il pacifismo continua ad essere un movimento che riemerge nei momenti di frattura e di rottura dell'ordine dato (conflitti, tensioni internazionali, ecc.), ma che rimane sotterraneo (nel bene e nel male) di fronte alla stabilità delle condizioni di dominio o di equilibrio interno ed internazionale.” Questo spiega la difficoltà ad agire in modo efficace o comunque forte in situazioni caratterizzate da elementi contraddittori e che comunque non coinvolgono in modo diretto".
Un'analisi che mi sento di sottoscrivere. Una valutazione alla luce della quale pare difficile che il pacifismo possa diventare utile ed efficace stimolo alla ragione dei potenti, all'uso della parola come elemento di prevenzione delle armi.
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