Titolo: La scopa del sistema
Autore: David Foster Wallace
Editore: Einaudi
Anno: 2012
Per capire cosa si deve aspettare il lettore che affronta La scopa del sistema, romanzo di esordio di David Foster Wallace, basta citare la frase che chiude il primo capitolo: “Fuori, nel croccante prato marzolino, alonata dai fasci di luce che spiovono dai lampioni, tra capannelli di ragazzi in blazer blu che risalgono il vialetto rifinendosi l’alito a colpi di mentine, assapora una breve epistassi.”
Non serve molto altro per intendere come mai David Foster Wallace è considerato da molti il più grande talento della scrittura postmoderna americana.
La scopa del sistema, pubblicato nel 1987 a soli 24 anni, è la sua opera prima e anche la meno complessa, ma già propone le tematiche che ritroveremo in Infinite Jest: il mondo del college con i suoi meccanismi contorti di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, il corpo come nucleo di ambiguità, la mancata identificazione dell’Io.
Raccontare questo testo cercando di definire una trama sarebbe riduttivo. La narrazione non lineare e intervallata da inserzioni parte dalla scomparsa di Lenore, bisnonna dell’altra Lenore (quella dell’epistassi di cui sopra, per intenderci), dalla casa di riposo in cui è ospitata, per poi deviare su tutta una serie di personaggi e surreali storie parallele la cui conclusione ci viene negata o solo accennata: l’uccellino parlante di Lenore (nipote) dall’improbabile nome di Vlad l’Impalatore che finisce a fare il predicatore in tv, il poco virile fidanzato dallo stridente cognome Vigorous, il fratello Stonecipher detto “l’Anticristo” che nasconde nella gamba di legno la droga ottenuta in cambio di favori accademici.
Qui non ci sono eroi, ma solo perdenti un po’ nerd che si rifiutano di affrontare i problemi pratici della vita adulta e fanno finta che tutto vada per il verso giusto.
L’ambiente non è da meno. L’Ohio, dove la storia prende piede, è uno stato talmente benestante che il governo ha dovuto costruire il DIO, un deserto artificiale il cui scopo ufficiale è ricordare all’uomo la forza selvaggia della natura, di come essa sia stata sottomessa ma rimanga come monito:
“Ragazzi, lo Stato sta perdendo le palle. Sento puzza di spallamento. Finirà per diventare una specie di grosso centro commerciale. Troppo sviluppo. La gente si sta ammosciando. Hanno dimenticato che questo Stato è il frutto storico della lotta dell’uomo contro la natura avversa. Finita la lotta per la sopravvivenza è finita ogni tensione. […] Signori, ci serve un deserto. […] Sissignori, un deserto. Un punto di riferimento primordiale per le buone genti dell’Ohio. Un luogo da temere e amare. Un luogo selvaggio. Qualcosa che ci rammenti contro cosa abbiamo lottato e vinto"
L’ironia con cui tutto questo è condito non lascia indifferenti e vi strapperà anche qualche risata, ma non lasciatevi ingannare: il sottointeso è pesante e lascia trasparire una certa insoddisfazione da parte del narratore. La vita secondo Wallace - seguendo la filosofia di Wittgenstein abbondantemente citata nel testo - è un grande racconto che esiste solo perché qualcun altro lo narra, quindi la vita è un palcoscenico e la scena può essere gestita come vogliamo, con le relative conseguenze.