Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaire Dreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)
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di Giuseppe Panella
La scrittrice dimenticata e il posto delle rose. Dolores Prato, Campane a San Giocondo, a cura di Noemi Paolini Giachery, Roma, Avagliano, 2009; Noemi Paolini Giachery, Le “mani tese” di Dolores, Roma, Edizioni Graphisoft, 2008
Il nome di Dolores Prato non è mai stato molto famoso in Italia. Quando nel 1980 Natalia Ginzburg fece stampare da Einaudi, nella collana dei Nuovi Coralli, il testo, da lei curato e abbondantemente sforbiciato di Giù la piazza non c’è nessuno, il libro ebbe certamente un po’ di successo ma non poi così tanto dato che non venne poi più ristampato.
L’autrice non era del tutto sconosciuta nel paese delle patrie lettere ma i suoi romanzi precedenti (Sangiocondo nel 1963, vincitore senza diritto di pubblicazione del Premio Prato 1948 per un romanzo inedito e Scottature nel 1967) erano uscite a sue spese per delle case editrici che erano, in buona sostanza, delle tipografie. Dolores Prato era già molto anziana (era nata a Roma nel 1892 e morirà ad Anzio, pochi anni dopo, nel 1983). Solo dopo la sua scomparsa, Giorgio Zampa, con pertinacia e dedizione encomiabile, è riuscito a ristampare prima presso Schweiller nel 1987, poi presso Adelphi nel 1988, i due volumetti di Le Ore, romanzo-diario del soggiorno in collegio dell’autrice e poi presso Mondadori il testo completo di Giù la piazza non c’è nessuno che risultava più del doppio dell’edizione curata da Natalia Ginzburg). Nel 1996 era stata ristampata, presso Quodlibet di Macerata, la saga universitario-amorosa di Scottature e ora, a conclusione della ricoperta della scrittrice, Noemi Paolini Giachery ha ristampato con il titolo primevo di Campane a Sangiocondo la prima opera narrativa della Prato (il romanzo uscito come Sangiocondo si sarebbe dovuto poi intitolare La rosa muscosa ma alla fine prevalse nel dattiloscritto il titolo attuale). Se si escludono le molte lettere ai consiglieri spirituali e alle amiche citate abbondantemente nei due libri biografici di Stefania Severi (L’essenza della solitudine. Vita di Dolores Prato, Roma, Sovera Editore, 2002 e Dolores Prato voce fuori coro. Carteggi di un’intellettuale del Novecento, Ancona, Il Lavoro Editoriale, 2007) ma non ancora pubblicate in toto, a meno di scoperte eclatanti sempre possibili, della scrittrice non manca nulla all’appello editoriale. Questo, però, non ne ha fatto una figura nota (come avrebbe dovuto e come meriterebbe).
Anche la bibliografia sulla Prato, oltre al bel testo critico della Paolini Giachery (Noemi Paolini Giachery, Le “mani tese” di Dolores, Roma, Edizioni Graphisoft, 2008) non conta molti titoli: un intenso saggio sullo stile di Franco Brevini, un testo sull’autobiografia e la formazione della scrittrice di Monica Farnetti, i libri della Severi giù citati e un testo a più mani pubblicato con il nome collettivo dell’autrice stessa per le cure del Comune di Treia nel 2000 – la cittadina marchigiana peraltro detiene i diritti dell’opera letteraria di Dolores Prato).
E’ probabile che l’aver privilegiato la sua scrittura considerata principalmente di origine dialettale e arricchita di solecismi (come sembrerebbe confermato dal titolo della sua opera maggiore) e il suo impegno di sabotatrice letteraria delle “strutture retoriche tradizionali italiane” (come di lei ha scritto Franco Brevini) invece che i suoi temi sia all’origine di questa sua diuturna neglezione. Se ne è fatta una scrittrice sperimentale, in sostanza – il che essa voleva essere fino ad un certo punto.
Se si legge con attenzione, ad esempio, il Campane a Sangiocondo ristampato a cura di Noemi Paolini Giachery si vedrà facilmente che il tentativo della scrittrice è quello di scrivere il romanzo di un’anima piuttosto che quello di una lingua (materna o infantile).
Eppure, bisogna essere giusti con Natalia Ginzburg. Le sarà sembrato, molto probabilmente, di ritrovare negli stilemi di Dolores Prato quegli stessi che avevano contraddistinto la sua opera maggiore, quel Lessico familiare per cui viene maggiormente ricordata e al cui interno viene stilato una sorta di regesto delle espressioni (e delle parole) più caratteristiche e più connotate che venivano pronunciate e più volte ripetute dai suoi familiari (nella maggior parte dei casi, da Giuseppe Levi suo padre). L’idea di un “lessico familiare” di Treja, la cittadina marchigiana dove la Prato aveva trascorso i suoi anni d’infanzia, potrebbe averla spinta a trascurare la dimensione narrativa più profonda e spirituale del romanzo.
Il desiderio di scrivere la “storia naturale” della personalità di un personaggio forte e ben tornito come quello di Don Pacì (certo esemplato su Don Pacifico Ciabocco, il sacerdote di San Genesio, paese dove Dolores – che nel romanzo preferisce esporsi con il nome antifrastico di Letizia – aveva insegnato tra il 1923 e il 1925 presso la Regia Scuola Normale Promiscua “Matteo Gentili”) emerge con forza e simpateticità dalle pagine del romanzo.
Il protagonista vero della narrazione è, tuttavia, il paese stesso di Sangiocondo con la sua autonomia intrinseca e invincibile, il suo gusto per l’indipendenza e il rifiuto della sottomissione al Potere e ai potenti, con le sue campane traboccanti gioia e volontà di vita. In un paese così, gli abitanti non possono che essere straordinari (forti e poco intelligenti insieme come Gigì oppure ostinati e geniali come il maestro Alcesti Rummi, autore di un concerto per sole campane dal titolo emblematico di Le campane della Patria per il quale, dopo l’entusiasmo iniziale e il desiderio espresso dalle autorità di trasformarlo in un’opera nazionalista, riceverà l’ostracismo da parte del regime fascista e la condanna al confino). Ma su tutti giganteggia il parroco don Pacì (Pacifico, terzogenito dopo Primo e Maria e simbolo della pacificazione del padre con il mondo). Pacì appare esemplato, anche onomatopeicamente, su Zizì, lo zio prete di Dolores a Treia, l’uomo che le aveva fatto da padre (così come il prete di Sangiocondo farà da padre a Benedetta, la nipote amatissima e causa indiretta dell’esilio dello zio). Pacì è un prete animoso, desideroso di applicare il Vangelo più che spiegarlo ai suoi compaesani, attraversato da “astratti furori” di trasformazione della sua parrocchia in una “vera comunità cristiana” (inutile dire che il vescovo osteggerà fino alla fine questo suo desiderio).
«Don Pacifico era un piccolo prete bruno, con occhi e mani enormi. Gli occhi sono gli sportelli dell’anima, diceva lui, senza pensare affatto ai suoi. Occhi scurissimi che esprimevano poderosamente la tenerezza. Guardando un dolore diventavano amore, se no erano luce e sorriso. Ma lui solo non seppe mai tutto questo, perché non si poneva davanti allo specchio a recitare quei sentimenti per osservarsi gli occhi. Forse avvertì appena che erano tanto grandi e li avrà trovati bruttissimi. Sproporzionati certo lo erano, come le mani. Figlio di povera gente, aveva le mani della sua razza, ma esagerate. Per fornirgliele, generazioni e generazioni avevano dovuto lavorare sodo! Erano così grosse e dure che non si capiva come si potessero piegare con tanta delicatezza attorno allo stelo di un fiore. Mani così spettacolari si univano nell’ausilio di un unico gesto per sollevare l’ostia all’altare. L’ostia non si spezzava, solo perché Gesù era abituato sin da bambino a quel genere di mani. […] Non era colto ma di un’intelligenza naturale vivissima con la quale suppliva, per quanto serviva all’attività pratica, a qualsiasi cultura, anche teologica. Studiò poco e male in seminario e non ricordava neppure quel poco. Conosceva bene solo il Vangelo, e cercava di applicarlo» (Dolores Prato, Campane a Sangiocondo, a cura e con un saggio introduttivo di Noemi Paolini Giachery, Roma, Avagliano, 2009, pp. 48-49).
Lo zelo che spinge don Pacì a cercare di coinvolgere i suoi colleghi preti in un tentativo di costruzione di una comunità cristiana simile, per certi aspetti, a quella dei primi cristiani si spezzerà contro gli ostacoli quotidiani della vita. Il fratello Primo, emigrato in America per potergli pagare la retta del Seminario, morirà di tisi; la moglie Irma si invaghirà del medico curante del marito e, riamata, lo sposerà salvo poi morire anch’essa repentinamente; la nipotina Benedetta, tenerissimamente amata da lui (nonostante le voci maligne di una sua effettiva e non putativa paternità) e dalla zia Marietta (che si considera la madre autentica della bambina), si innamorerà del figlio dell’uomo più ricco del paese, Massenzi, che brigherà per far allontanare lo zio insieme alla nipote e alla stessa zia in un paese lontano dove le due donne moriranno una dopo l’altra. E anche Don Pacì morirà durante una rissa scoppiata per ragioni legate alle sovrabbondanti confraternite del paese che si contendevano antichi privilegi (in realtà risibili) durante le processioni annuali. Un colpo d’arma da fuoco ne spezzerà la fibra, peraltro robusta e destinata a durare. Tra i moltissimi (forse troppi) personaggi della narrazione, spiccano i poveri (come Zoccoli, calzolaio comunista che nasconde con tenacia forse degna di miglior causa la bandiera del suo Partito, “uno straccio rosso di speranza “ – per dirla con uno straziato verso di Vittoria di Pasolini o come Ugo di Appicciafuoco, un miserabile che si ingegna come può e ruba perfino le offerte in oro alla Madonna salvo poi farle restituire, pentito, dalla moglie). I ricchi sono pallide figure simulacrali schiacciate dalle loro ricchezze e beni e gli ecclesiastici del paese (da don Annibale il teologo a don Peppe lo storico della città, da Don Salvatore patito per l’oreficeria a Don Ernesto pilota accanito di automobili) non sono che figure e talvolta macchiette impietose e indegne del loro compito di pastori di anime.
Dolores Prato sosteneva che il libro era nato come sceneggiatura cinematografica il che è certamente possibile – ne resta traccia negli ampi squarci di dialogo e nel taglio di apertura delle descrizioni che si offrono allo sguardo dello spettatore con la potenza visiva della loro ampiezza.
Un romanzo denso e spesso straziato dalla nostalgia del tempo che fu, un personaggio vivo e potente (che ha fatto pensare al Don Camillo della coppia comica con Peppone dei famosissimi romanzi e film di e da Giovannino Guareschi), una storia vecchia come il mondo e altrettanto capace di suscitare commozione e rimpianto – questo testo apparentemente dimenticato di Dolores Prato meritava di essere conosciuto da un pubblico certo più vasto di quello del passato. Merito di Noemi Paolibni Giachery averlo riproposto e commentato con la forza della sua critica e il nitore della sua scrittura.
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