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di Carlo Mazzacurati, 2014
Secondo Calvino (Lezioni americane), uno dei valori da preservare nel millennio appena cominciato è la rapidità. E cosa intendesse La sedia della felicità potrebbe spiegarlo benissimo: una ricchezza imponente di storie, luoghi, temi, toccata o sfiorata, ma non per superficialità o indifferenza quanto per il dovere di continuare a correre ed esplorare, per l’impossibilità di fermarsi.
Se già con La passione il regista aveva dimostrato l’impossibilità di appigliarsi a qualcosa e con L’amore ritrovato e La giusta distanza aveva messo in scena quanta fragilità può esserci nei rapporti umani, se già da Vesna va veloce tutto ciò era evidentemente già nel suo registro cinematografico, mai come in quest’ultima opera le stesse cose hanno posseduto tanta leggerezza.
La scelta degli attori la dice lunga. Mastandrea e la Ragonese sono forse il maschile e il femminile di un unico tipo di attore, che potrebbe rientrare nella categoria del tragicomico, con la loro capacità di far sorridere con i soli gesti e movimenti, anche con un viso impassibile (e non esagero se dico che con gli anni il viso di Mastandrea sta sempre più assumendo toni keatoniani). Aggiungendovi l’attore ormai-simbolo Battiston la sostanza è ben definita. I tre si sono vicendevolmente incrociati più volte in esperienze passate e posti sul cartellone hanno assunto quasi il sinonimo di “commedia non banale”. Ma che tipo di commedia è questa?
Si direbbe tradizionalissima, molto italiana: un uomo e una donna con problemi di lavoro, scoprono una possibile fonte di ricchezze e incrociando bizzarri e farseschi personaggi, trovando infine sia la ricchezza che l’amore. C’è il collante tra le picaresche avventure: una sedia molto kitsch; c’è l’antagonista: l’impossibile prete Battiston; ci sono le situazioni assurde (perciò comiche) e costruite a tavolino: il pescivendolo collezionista di sedie, l’archivista sadomaso, il quasi rituale incoronamento della protagonista. Tutti gli elementi di una purissima commedia al loro posto. Ci siamo infinite volte detti stanchi della solita commedia, eppure questa ha gusto, brio, da dove prende queste qualità? Tento una risposta.
Primo. Gli eventi, gli ostacoli son così veloci e velocemente oltrepassati che non hanno il tempo di farsi riconoscere come stereotipi, non hanno il tempo di costituire “situazioni comiche” ma volano come barzellette senza peso. Nella villa Bruna sfugge da un cinghiale, ma non vediamo la fuga, vediamo la causa del problema e la risoluzione dello stesso. Rapidissimo.
Secondo. I personaggi agiscono, non pensano. Non diventano isterici o filosofi, né hanno la pretesa di ispessirsi o approfondirsi, si muovono come pedine. Padre Weiner è forse morto a causa loro, il pentimento è breve, indolore. Una morte paragonata ad un piccolo sasso in si inciampa nella corsa.
Terzo. Tutto è oltremodo facile. Niente non riesce. Gli indizi appaiono in tv come visioni. Si può rubare una sedia e gli inseguitori sono così lenti che paiono addormentati. Un lucchetto non si è mai aperto così in fretta. La persona cercata sull’elenco è solo la cinquantesima (più o meno) tra centinaia di omonimi.
Quarto ed è questo il pregio forse più invisibile ma più sostanziale. Il film è pieno di aggiunte, elementi che non servono alla storia, come dettagli, orpelli, volute su un altare rococò. E se la trama è così colorata e viva è merito di questa non necessità. Perché la collaboratrice di Bruna invita Dino a spostare la scrivania? Cosa ce ne facciamo del fatto che la cliente del centro estetico ha problemi col marito? E la maestra trovata tra le lapidi al cimitero? E la madre cinese lascia il proprio figlio da solo tutte le sere?
Si tocca si fugge, ma è così, è attraverso questa passeggera non-necessità che vediamo il mondo oltre il velo del comico. Non c’è un punto fermo nell’ultimo film di Mazzacurati, tutto è mobile, veloce, scorrevole, ma azzarderei col dire semplice. Nessun personaggio, nessuna scena o frase, nessun elemento è più denso di altri e le sequenze scivolano come un liquido senza attrito, senza mai coagularsi. Ma lasciano traccia.
Parentesi. Ho visto il film al primo spettacolo pomeridiano e in sala i seggiolini degli spettatori erano trasformati in altrettante sedie della felicità: tanto sano ridere tra insospettabili signori educatissimi ed eleganti signore. C’era anche chi non sapeva trattenersi dal continuare a ridere e la sala come in un lungo eco continuava a dimenarsi anche se sullo schermo non c’era nulla per cui ridere. Il cinema è, per fortuna, anche e ancora questo.