L'arte della palabre
scritto da Gaetano Veninata per Giudizio Universale
«Viviamo in una civiltà contrassegnata dal rischio. (…) Il rischio tecnologico non è certo un fatto nuovo. Inventando la barca , l’uomo ha inventato il naufragio, e scoprendo il fuoco ha assunto il rischio di provocare incendi mortali. (…) Il possibile naufragio del pianeta non è lo scotto dell’ingegnosità umana, ma quello di azioni che sfidano ogni qualsivoglia prudenza». E allora tocca a Minerva richiamare i suoi figli alla disciplina, magari conducendoli per mano verso un futuro meno tecnico, più umano. Serge Latouche nel suo “La sfida di Minerva” (1999) parte dal mito, non a caso.
La globalizzazione, con il suo motore fondamentalmente economico-tecnologico, non è mai piaciuta al teorico della decrescita. La sfida di Minerva è allora una sfida all’arroganza della società occidentale, ipocrita e priva di Ragione. Dea greco-latina, figlia di Métis, l’astuzia, prima sposa di Zeus che quest’ultimo avrebbe divorato dopo il concepimento, Minerva è madre di due figli, di due spiriti del tempo: il ragionevole e il razionale, la prudenza e la geometria. E da loro che Latouche parte per affrontare un viaggio nei motivi del disastro sociale seguito alla scomparsa del primo figlio della dea, Phrónesis (la prudenza). Ragionevole versus razionale, dunque; due concetti che hanno viaggiato a braccetto fin verso la fine del XVI secolo, e che oggi vedono la ragione geometrica idolo incontrastato del discorso occidentale. Una ragione che ha portato l’uomo alla costruzione della società attuale, Leviatano fatto di tecnica applicata al consumo, e nulla più.
Un mondo di cui il filosofo francese cerca di svelare il limite, il punto oltre il quale non sarà possibile andare, pena la disumanizzazione: dall’irrazionalità dell’economia informale africana alla sensibilità meridiana, dalla “prudenza” classica alla resistenza equa e solidale, il libro di Latouche ruota tutto sul perno tirannico dello spirito geometrico. Atena nera. Le “razionali follie” che contraddistinguono le politiche economiche occidentali (ché quelle sono le uniche politiche oggi praticate dall’Occidente dei tecnici) sono manifeste in Africa. Laddove a vincere sono in realtà i comportamenti irrazionali e dunque ragionevoli: così Latouche ci racconta del contadino in Madagascar che ai consigli di un tecnico occidentale per razionalizzare e incrementare la produzione di latte risponde “non voglio, non avrei tempo per osservare il tramonto”; o del ragionamento antieconomico (e dunque antioccidentale) di alcuni allevatori maliani che non sanno che farsene, di più soldi.
Questo perché in Africa la povertà non ha lo stesso significato che assume in Occidente, perché ci sono meno bisogni indotti e dunque meno razionalità. Ma razionalizzare l’africano equivale a distruggerlo, e questo dal momento in cui diventa economicamente razionale solo ciò che conviene agli interessi dei bianchi. E allora lunga vita alle palabre, le assemblea subsahariane con la quali i membri di un villaggio risolvono conflitti e problemi comuni. Alle moderne democrazie occidentali essa può insegnare l’importanza dell’assemblea popolare per sperimentare un potere reale; al di là della giustizia il loro obiettivo è infatti raggiungere l’armonia, l’unità. E poco importa a Latouche se le palabre alla lunga sono soggette agli stessi mali delle assemblee occidentali: restano comunque una dimostrazione, con le loro sedute lunghissime e molte volte inconcludenti, di come il tempo ragionevole non sia denaro. Ragione mediterranea.
Può esistere nel cuore dell’Occidente una ragione mediterranea da contrapporre al razionale dei WASP? C’è davvero una diversità radicale del Sud in grado di fronteggiare la tecnicità del Nord? Le risposte di Latouche alle domande poste da Franco Cassano nel suo “Paeninsula. L’Italia da ritrovare” (1998) sono decisamente negative: perché se è vero che esiste una sensibilità meridiana, è anche vero che questo “mondo bianco” è figlio (rinnegato, scriveva Camus) della Grecia e del Mediterraneo. E non si parte dalle stesse radici quando si vuole essere alternativa: «Non sarà un’eccezione culturale a salvarci», sottolinea il filosofo francese. Il Mediterraneo può essere una base d’appoggio, un porto al quale guardare, senza però inventarsi peculiarità inesistenti. Bisognerebbe invece guardare all’esperienza meridionale come alle palabre africane, magari condendo il tutto con un po’ di asiatico arrangiarsi: allora sì la riscoperta del ragionevole porterebbe al ritorno di un ideale democratico «liberato della corruzione tecnocratica e delle devastazioni dell’utilitarismo». Phrónesis.
La ragione è oggi imperialistica ed etnocentrica: ciò è dovuto alla svalutazione del ragionevole a scapito dell’interesse economico, e alla scomparsa della “prudenza” dal vocabolario occidentale. Come scrive Latouche, «tutto si compra e tutto si vende: nulla sfugge alle maglie dei razionale»: la phrónesis è stata così definitivamente scavalcata dall’audacia, serva stupida del capitalismo utilitaristico. Ma se consideriamo la totalità degli elementi che costituiscono l’umano, vedremo che affidarsi al cieco spirito geometrico è assolutamente irragionevole. Acquistare un chilo di banane biologiche costa di più, è irrazionale economicamente. Ma, in un’ottica etica dell’umano, è perfettamente ragionevole. La tirannia del razionale. In una società tecnica politica ed economia diventano tecniche: ciò provoca la scomparsa del “politico” in un’indistinta matassa geometrica, in un assurdo calcolo (im)perfetto. In realtà per Latouche l’unica politica da seguire è quella che pondera le ragioni, decidendo prudentemente e con buon senso.
I diritti umani universali, omaggio dei Lumi all’Occidente razionale, proprio perché universali sono stati invece svuotati di contenuti concreti a vantaggio di quella mondializzazione schiava della tecnica che trasforma l’uomo in cyborg. L’unica via d’uscita, l’unica «soluzione corretta» sembrerebbe allora la via democratica. Nel puro senso della parola. Il ragionevole e l’equo. Una delle condizioni fondamentali della globalizzazione e dell’universalismo è, paradossalmente, la differenziazione, ovvero la valorizzazione/esasperazione delle differenze, con la crescita di localismi vari, rivendicazioni di autonomia e celebrazioni del “Made in…”. Troppo spesso molte delle forme che questa rivendicazione si dà, sono in realtà pienamente partecipi del meccanismo capitalista, costituendo solamente un contenitore esotico di bisogni per vecchi occidentali. Il commercio equo e solidale rappresenta il simbolo concreto di queste contraddizioni. Da un lato infatti l’esperienza del mercato alternativo, se opera in buona fede, è un’importante strumento di “opposizione” al pensiero unico; dall’altro, rischia però di tramutarsi nel suo opposto, diventando business: è quando i prodotti solidali si appoggiano per la distribuzione alle grandi catene, o quando si investe di più nel merchandising che non nella solidarietà.
È un problema concreto, che riguarda anche le ong. Latouche lo affronta pragmaticamente, negando l’esistenza utopica di una “società civile mondiale” da contrapporre alla “società universale utilitaristica”: «Le associazioni e le reti che, a torto o a ragione, pretendono di fare da contrappeso alla potenza finanziaria delle aziende transnazionali sono in larga misura strumentalizzate dai giganti dell’economia e della finanza. Una società civile mondiale non esiste». La soluzione del filosofo francese è allora quella di tornare nel campo del ragionevole, della prudenza, e ciò è ancor più vero per chi, come le ong o i commercianti solidali, della tirannia del razionale dovrebbe essere il maggiore oppositore. L’alternativa si costruisce, in conclusione, partendo da una nicchia trasparente.
Per Latouche dunque la prudenza, “Phrónesis”, il ragionevole, presuppone la conoscenza della condizione tragica dell’uomo e il senso del limite. Dobbiamo quindi riconoscere che la stessa ragione e’ sempre minacciata dalla contaminazione del razionale, da questo cancro economico-tecnologico. È questa la sfida di Minerva: non si tratta di tornare alla prudenza aristotelica, ma di superarla per uscire dagli intralci di una ragione bifronte. È per questo che il libro del filosofo francese è un prezioso strumento per imparare a “ragionare” umanamente, senza essere schiavi dello spirito geometrico.