Anita Raspini e Gigi (Luigi) Bernardini.
La incontro nella sala d’aspetto dell’ambulatorio medico di Sant’Anatolia di Narco (PG).
Il dottore è molto indaffarato a visitare i pazienti e lnell'attesa e conversazioni prendono il via facilmente. Accanto a me ho il canapaio del paese che sta spiegando i suoi metodi naturali per combattere il torcicollo: impacchi di aceto caldo tolgono il fastidio in quattro e quattr’otto.
Anita, invece, si inserisce delicatamente e racconta di possedere una pianta che guarisce ferite, scottature e ogni altra affezione della pelle. Una signora delle erbe, a quanto pare. Mi incuriosisce. Poi scoprirò in seguito che è una vera dispensatrice di scrophularia.
Fino a qualche decina di anni fa, nelle campagne italiane, la conoscenza delle piante e il loro impiego a fini terapeutici erano ancora molto diffusi. Quasi tutti sapevano come usare foglie, fiori o radici per ottenere medicamenti contro i malanni più banali e comuni, ma alcune persone erano delle vere e proprie esperte, depositarie della completa potenzialità fitoterapica, capaci di affrontare qualsiasi tipo di indisposizione.
Il ruolo di guaritore (di uomini e bestie), indistintamente assunto sia da individui di sesso maschile che femminile, aveva una forte riconoscibilità sociale.
D’altronde piante, alberi e tappeti erbosi costituivano retaggi di millenaria esperienza ed erano più a portata di mano di medici e farmacisti, nella maggior parte dei casi inaccessibili a causa delle barriere orografiche e delle lunghe distanze da coprire a piedi.
Così la medicina, fino alla metà del Novecento, ha continuato a servirsi in prevalenza di pratiche empiriche e di esperti non riconosciuti da albi ufficiali, ma solo dal gradimento popolare.
Con il venir meno della società rurale, l’industria farmaceutica ha avuto un netto sopravvento garantendo da una parte il controllo scientifico e dall’altra abusando nei preparati. Per questo motivo il ricorso alla medicina vegetale ha avuto una prepotente rinascita: affidarsi ai rimedi naturali sembra molto più conveniente e salutare, pur con le dovute precauzioni.
Anita mi parla della sua pianta che anni fa le è stata donata da una signora di Roma. Questa l’aveva avuta dal nonno. Non c’è che dire, stiamo andando indietro di parecchi anni.
Le foglie di quest’erba perenne, battute e schiacciate lungo la nervatura centrale, vanno applicate sulle lesioni cutanee che guariscono in poco tempo, così con un semplice rimedio domestico.
C’è da fidarsi: la signora è nata a Monte San Vito, case di pietra circondate da boschi e manti di verde a tutto campo e raccoglie anche altre specie curative.
Non conosce il nome della pianta, ma da quel primo dono che le è stato fatto ha avuto la saggezza e la gentilezza di coltivarla nell’orto e di dispensarla a chiunque in paese ne avesse bisogno. Dopo qualche settimana, ne fa omaggio anche a me. L’infermiera Maria Grazia me ne consegna un bell’esemplare fatto crescere appositamente in un vaso. Guarda il caso! La medicina tradizionale che ha come vettori di trasmissione gli operatori ufficiali, prima l'ambulatorio medico poi l’infermiera.
Mostro la piantina ad Adolfo, un esperto di botanica, che mi comunica il nome: è un esemplare di scrophularia, pianta erbacea perenne eretta, dalle foglie dentellate e dai piccoli fiori purpurei. Guarisce ferite, emorroidi, fegato, reni, stomaco; è anche un antidolorifico. Nel XVII secolo la medicina ufficiale se ne serviva per curare le infiammazioni delle ghiandole sottomandibolari.
Grazie Anita, a te e a tuo marito Gigi. Grazie alla signora delle erbe!