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La signorina Rosa

Creato il 19 settembre 2013 da Skip

Con questo post partecipo alla quarta edizione del  Carnevale della Letteratura avente come tema il tempo e  curato da Leonardo Petrillo  su Scienza e Musica.  Propongo una passeggiata nel tempo che fu per raccontare la vita di una donna con lo sguardo su altri tempi.

Quando penso alla signorina Rosa, concludo che riuscì sempre ad essere protagonista della sua vita, senza finzioni, né guida, né protezione. Penso a quei semi che volano via per germogliare altrove. Lei aveva in sé i semi del secolo successivo.

Rosa nacque nel 1899. Ancora adolescente, perse entrambi i genitori a poca distanza l’uno dall’ altra. Suo fratello, di due anni più grande,  prese quindi  la via del mare per provvedere alle due sorelle minori e fu esonerato dal primo conflitto mondiale, proprio perché sostegno di famiglia. Finite le scuole tecniche, Rosa aspettò di compiere diciotto anni per lasciare  il paese e andare a vivere in città con la sorella, di un anno più giovane, alla quale era molto legata. Pare che all’inizio entrambe lavorassero in un laboratorio di cucito. Nel 1919 la sorella Lucia morì di febbre spagnola, che all’epoca fece molte vittime.

Rosa decise di proseguire gli studi , diventò ostetrica e lavorò sempre all’ospedale Ascalesi nel cuore caldo  di Napoli. A lei si deve la nascita, in casa, di tutti i nipoti, pronipoti e figli di conoscenti finché fu costruita la prima clinica ostetrica in penisola sorrentina alla fine degli anni ‘50. Rosa era minuta e di statura piccola, ma aveva un passo sicuro e deciso. Arrivava nella casa della partoriente e istruiva sul da farsi le donne presenti, zittendole con fermezza per mantenere la calma e concentrarsi sull’evento. Non si può dire fosse una bellezza.  Aveva però un paio di occhi  vispi da furetto, di colore castano verde, eredità trasmessa alle nipoti e pronipoti.

Nel ’43 aiutò la nipote maggiore a trasferirsi in città per lavorare e contribuire al mantenimento agli studi dei tre fratelli minori. Questo perché suo padre ( il fratello di Rosa) era disperso. In verità proprio durante l’ultimo viaggio, che prevedeva il suo sbarco a Genova, arrivò un contrordine. La sua motonave fu dirottata  ad Alessandria d’Egitto e l’equipaggio sbarcò  in un campo di prigionia inglese. Lì suo fratello vi rimase per otto anni e ne svelò il segreto  parlando in arabo contro fantasmi immaginari, quando in tarda età la sua mente vacillava tra sprazzi di memoria del passato e vuoti del presente.  Durante la sua assenza Rosa seguì i  cinque nipoti conciliando, come poteva,  gli impegni di lavoro col tempo libero. La seconda guerra si fece sentire, in tutti i sensi: nelle separazioni forzate, nei bombardamenti, negli stenti, nella trepida attesa di notizie. Ogni tanto tornava al paese e  rimproverava la cognata perché i ragazzini parlavano il dialetto. Rosa ci teneva all’Italiano. Ormai aveva assunto l’aria della città e credeva che un diploma e la  padronanza della lingua italiana potevano essere un buon biglietto di presentazione per un’occupazione futura. Nel dopoguerra incoraggiò i tre nipoti ad intraprendere la carriera del mare. Rosa invece iniziò a viaggiare, prima da sola poi, in età avanzata, coinvolse nelle sue peregrinazioni anche alcune amiche. Non c’erano confini di spazio e tempo alla sua voglia di scoprire l’Italia , l’Europa e poi oltre. Investiva così i suoi risparmi, allontanandosi sempre più,  come i cerchi concentrici si allargano nell’acqua. La sua meta preferita fu Parigi ma è rimasta memorabile nella storia della famiglia la sua partenza per la Terra Santa in un itinerario “fai da te” negli anni ’50.

La ricordo anziana quando per un giorno si fermava a casa nostra e l’indomani ripartiva per proseguire uno dei tanti viaggi. Quando arrivava era una festa. I miei genitori la aspettavano e si premuravano di accoglierla secondo il rituale riservato agli ospiti di riguardo. A tavola parlava ininterrottamente, descriveva e raccontava le sue peripezie, e sorrideva. Mio padre la ossequiava dandole del Voi, nutriva per lei un’ammirazione, che ho capito in seguito, e una tacita gratitudine per avere assistito mia madre nel lungo parto di mio fratello che fece tribolare per due giorni non solo lei, ma anche  tutto il parentado.  Tra Rosa e mamma c’era una solidarietà femminile, riguardosa da ambo le parti, forse  perché la vita le aveva portate lontano a condividere la tradizione del mare in  una fatale ciclicità. Alla fine degli anni ‘60 Rosa venne a farci visita  per congratularsi con papà, fugando  ogni perplessità dei miei a trasferirsi altrove. Era sempre più piccola, con tante rughe ricamate dal tempo e dalla vita sul viso e sulle mani. Il passo era incerto, ma costante. Mi pareva una testuggine, con gli occhi di sempre, cangianti a seconda della luce, curiosi, attenti, precocemente spalancati sulla libertà, forza  e determinazione di essere. Quando la ricordiamo, tutti pensiamo a una donna intraprendente ed indipendente, discreta e tenace che vedeva altri tempi . Poco formale nei festeggiamenti, mai invadente, lontana eppure presente nei momenti critici.

Certe vite  sono opere, rese grandiose da una quotidianità percorsa a piccoli passi per gestire difficoltà  e costruire pian piano, credendo in qualcosa. Qualcosa di silenziosamente autentico che va al di là di se stessi, degli affetti, delle coordinate di spazio e tempo, della contingenza del reale. A distanza di tanti anni Zia Rosa riesce ancora a trasmettermi un esempio che orienta. Una riservata, piccola- grande donna che, inizialmente per necessità e poi per scelta, interpretò la vita senza il bisogno di ricevere conferme affettive o consensi, seguendo priorità che aveva selezionato con intelligente perspicacia. Precorse i tempi con la curiosità di aprirsi al mondo, riuscendo a superare ogni distacco e a colmare ogni lontananza. Quando penso a Zia Rosa vedo una moderna  ragazza del 1899.

Dedicato a Zia Rosa

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