La società del mercoledì sera: Il disagio della civiltà e gli hikikomuri

Da Simonetta Frongia
Il disagio della civiltà e gli hikikomuri

Traggo spunto per l'argomento di stasera dal programma Melog di Gianluca Nicoletti che stamane parlava degli hikikomuri.
Ne “Il Disagio nella civiltà” (1929), Freud ammette che il processo di socializzazione, nell’attenuare i rischi autodistruttivi del consorzio umano, per proteggere dalle estreme conseguenze dell’aggressività incondizionata verso le fasce più deboli, quali donne, bambini, anziani, ha costretto alla rinunzia alle gratificazioni (attraverso il soddisfacimento immediato e diretto delle pulsioni), e ciò ha reso l’accesso al sentimento della felicità molto più tortuoso ed ovviamente meno praticabile.
L’incivilimento, produce quel primo “meccanismo di difesa” che sposta le pulsioni, sessuali o aggressive, verso la valorizzazione di obiettivi socialmente accettabili, e quindi non sessuali e non aggressivi. Le gratificazioni vengono quindi procrastinate e ricercate in mete più impegnative, che costituiscono traguardi culturali nell’ambito delle professioni, della ricerca o dell’attività artistica, ovvero in finalità relazionali, quali l’amore, l’affetto, l’amicizia, la solidarietà.
Quest’operazione portata alle estreme conseguenze con un'eccessiva inibizione degli istinti, pregiudica l’equilibrio psicofisico, ed, attraverso un esagerata massificazione che tende all'omogeneità, l’uniformità ed il livellamento, si può arrivare ad un indebito annullamento della propria individualità. Presso alcune comunità primitive, la rinuncia del singolo alla funzione critica, per una maggiore aderenza alle esigenze del gruppo, in cambio della soddisfazione di un senso di protezione, mantiene la regressione emotiva alle fasi iniziali del rapporto parentale. Si organizza pertanto una situazione paranoide che tende a sviluppare ideologie fondamentaliste, intolleranti, le quali temono e combattono ogni diversità. All’estremità opposta, con la totale rinuncia ad ogni specificità caratterizzante, ritroviamo una passività di fronte ogni pretesa, pur non priva di umanitaria autenticità.
Un fallimento nella composizione degli equilibri tra Io, Es e Super-Io condurrebbe a quelle manifestazioni patologiche che si potrebbero far rientrare in una qualche forma di “disturbo del rapporto con l’altro”.
Sembrerà. forse che si voglia fare un eccessiva forzatura ma nel fenomeno hikikomori che sta diventando sempre più un fenomeno non solo culturale, sociale e transgenerazionale, io ci vedo questo disagio, ci vedo una serie di disequilibri tra società, famiglia e singolo individuo, ci vedo un disequilibrio tra le varie istanze dell'essere ed un disequilibrio nei rapporti parentali, tanto che anche alcuni studiosi hanno messo in evidenza il fenomeno sociale con un rapporto madre/figlio/a iperprotettivo.
Link a Melog, consiglio l'ascolto ricco di spunti critici, pareri esperti (Ricci) e storia di "ordinario disagio": http://www.radio24.ilsole24ore.com/player/player.php?filename=120229-melog.mp3

Il mondo in una stanza E’ strano che le parole giapponesi abbiano un suono così dolce anche quando indicano cose spiacevoli e dure.
Hikikomori significa “ritiro” e indica una modalità con cui alcune centinaia di migliaia di giovani giapponesi hanno "deciso" di esprimere il proprio male di vivere.
Una mattina, quando aveva 15 anni, Takeshi si chiuse alle spalle la porta della sua stanza e non vi uscì più per i successivi quattro anni.
Non andò più a scuola, non lavorò, non incontrò amici. Mese dopo mese, 24 ore al giorno, visse in una stanza non più grande di un grosso materasso, mangiando gnocchi, riso e altre pietanze che sua madre cucinava, guardando giochi televisivi e ascoltando i Radiohead.
”Qualcosa” diceva “che fosse scuro e suonasse disperato”.
Anche Y.S., quando aveva 14 anni e dopo anni di maltrattamenti psicologici da parte dei compagni di scuola, si era ritirato nella sua stanza e aveva continuato a guardare la televisione, a navigare su internet e a costruire modellini di automobili per 13 anni. Metà della sua vita.
Sono queste due delle tante storie di hikikomori.
La parola hikikomori fu coniata dal dott.Tamaki Saito, direttore del Sofukai Sasaki Hospital, quando cominciò a rendersi conto della similarità sintomatologica in un numero sempre crescente di adolescenti che mostravano letargia, incomunicabilità e isolamento totale.
Il dott. Saito è oggi il maggior esperto di questo disturbo e ha scritto diversi articoli e libri sull’argomento, compreso: “Come salvare vostro figlio dall’hikikomori”.
La diffusione del fenomeno in Giappone ha avuto luogo negli ultimi 10 anni e il dott. Saito stima che un milione di giapponesi ne siano coinvolti, praticamente l’1% della popolazione.
Stime più caute parlano di un range compreso fra 100.000 e 320.000 individui.
Sebbene esistano anche ragazze, circa l’80% di hikikomori sono maschi, i più giovani hanno 13-14 anni, e i ritiri, questa sorta di “autosequestri”, possono durare anche più di 15 anni.
Sulle cause del fenomeno si fanno solo ipotesi. Come l’anoressia, la cui diffusione è pressocchè limitata alle culture occidentali, anche l’hikikomori sembra essere una sindrome culturale che si sviluppa in un paese specifico durante un particolare momento della sua storia.
I giapponesi hanno dato la colpa a qualunque cosa: alle madri oppressive e a quelle assenti, ai padri troppo impegnati, al bullismo scolastico, all’economia in recessione, alle pressioni accademiche e ai video game.
Ma il tutto va probabilmente collocato sullo sfondo di una società sociologicamente in crisi e che, soprattutto, si nutre di una cultura dalle caratteristiche uniche al mondo e non sempre "sane".
James Roberson, antropologo culturale al Tokyo Jogakkan College ed editore del libro “Uomini e mascolinità nel Giappone contemporaneo” punta il dito su un particolare atteggiamento giapponese nei confronti del successo personale.
Secondo Roberson i ragazzi cominciano a percepire una forte pressione all’autorealizzazione già nella scuola media e l’hikikomori potrebbe essere una resistenza a questa pressione.
Anche il dott. Saito, che ha trattato più di 1000 hikikomori, attribuisce il disagio al contesto familiare e sociale, all’interdipendenza fra genitori e figli e alle pressioni su di essi, in particolare quelli più grandi, perché siano eccellenti negli studi e nella professione.
Se un ragazzo non segue un preciso percorso verso un’università d’elite o un’ azienda di prestigio molti genitori, e di conseguenza i loro figli, vivono questo come un grave fallimento.
Molti fra gli stessi pazienti raccontano di anni scolastici da incubo, di episodi di bullismo, in cui venivano maltrattati per essere troppo grassi o troppo magri o persino per essere migliori di qualcun altro nello sport o nella musica. Come usano dire i giapponesi: “Il chiodo che sporge va preso a martellate”...
I sintomi. Oltre all'isolamento sociale gli hikikomori soffrono tipicamente di depressione e di comportamenti ossessivo compulsivi, ma non è facile comprendere se questi siano una conseguenza della reclusione forzata a cui si sottopongono o una concausa del loro chiudersi in gabbia.
Alcuni hikikomori si fanno la doccia per diverse ore al giorno e indossano guanti spessi per tenere a bada i germi, mentre altri strofinano le mattonelle nella doccia per ore e ore.
Nonostante lo stereotipo sia quello di un uomo che non lascia mai la sua stanza, molti reclusi si avventurano fuori, una volta al giorno o una volta alla settimana, per andare in un Konbini, un supermarket aperto 24 ore.
Lì possono trovare colazioni a portar via, pranzi e cene, e poiché di solito si svegliano a mezzogiorno e vanno a dormire al mattino presto, il konbini è una scelta sicura e anonima a tarda notte. La cassiera non parla e tutti gli altri stanno a casa a dormire.
Perchè il Giappone?
In altre società i problemi di adattamento giovanile sono i medesimi, quello che cambia sono probabilmente le risposte che un ragazzo occidentale può fornire.
Si può entrare in una gang, si può diventare "gotici" o diventare parte di qualche altra subcultura.
In Giappone invece, dove l’uniformità è ancora la norma e la reputazione e le apparenze esteriori sono importantissime, la ribellione si trasforma in forme mute come l’hikikomori.
Quello che in altre culture si esplica con l’abuso di sostanze o altri fenomeni “rumorosi”, in Giappone si tramuta in apatia e in altre "proteste silenziose".
La clinica. Nell'articolo del NYT si descrive il programma "New Start" che offre un alloggio in comunità e un programma di formazione-lavoro.
Gli operatori sono per lo più ragazze, che lavorano, anche molti mesi, per instaurare un legame che costituisca un ponte sicuro fra l'hikokomori e il mondo esterno.
Una volta a settimana, l'operatrice fa visita al ragazzo convincendolo gradatamente a uscire dalla sua stanza e poi a lasciare la propria casa per cominciare il programma New Start.
In qualche caso ci vogliono molti mesi, in qualche altro anche anni.
Alla quinta visita Y.S. si rifiutava ancora di parlare.
Così Kawakami, l'operatrice, gli chiese di scrivere una lettera su sé stesso.
Y.S. scrisse la sua data di nascita e che amava fare modellini di automobili.
Quando Kawakami gli chiese di creare un'automobilina per alcuni bambini del centro diurno, due settimane dopo Y.S. gliene diede una, meticolosamente dettagliata e dipinta.
Sembrava molto contento. Era come se nessuno gli avesse mai chiesto di fare qualcosa per qualcun altro prima di allora.
Le visite dell'operatrice continuavano, ogni settimana per sei mesi lei incoraggiò Y.S a porsi l' obiettivo di lasciare la sua stanza e la sua casa prima del suo compleanno.
Il giorno prima del suo 28 esimo compleanno, lo scorso aprile, dopo 13 anni di isolamento Y.S. ha messo due scatole dentro la macchina di Karakami e hanno guidato per due ore verso la comunità di New Start...il nuovo inizio.
Il fenomeno in Italia Alex ha messo un chiavistello alla porta della sua stanza e per oltre sei mesi ha chiuso il mondo fuori. Andrea da nove passa le sue notti su Internet perché la vita vera, dice, è lì. Anna esce dalla camera solo di notte per assaltare il frigorifero. Luca risponde esclusivamente a chi lo chiama con il «nick» perché il suo nome gli suona vuoto come la sua esistenza. Confondono il giorno con la notte, parlano con gli sconosciuti e sono sconosciuti in casa loro. Sono le esistenze rovesciate degli hikikomori, i giovani autoreclusi, non più solo giapponesi. Per conoscere le loro storie devi parlare con le sentinelle impotenti del loro ritiro. Genitori, fratelli, amici: «Mio figlio per oltre sei mesi mi ha parlato solo attraverso la porta e solo per urlarmi "lasciami in pace"»; «Mia sorella esce quando tutti dormono: mi ruba le sigarette dallo zaino e torna a rinchiudersi». Ma per incontrarli non puoi che andarli a cercare nel loro regno: Internet. Ecco Chaoszilla, dà un nome agli autoreclusi come lui: «Io sono un hikikomori»; Pavély spiega cos' è, un hikikomori: «È una parola giapponese. Indica il comportamento di quei ragazzi che per anni vivono in casa, senza affrontare la vita e l' amore. Solo Internet e fumetti. Cosa importante: io sono uno di loro»; Miki s' identifica, quindi quantifica il fenomeno: «Ve lo dico: hikikomori è un traguardo, è la frontiera. In Giappone sono circa un milione. In Italia siamo mostruosamente indietro ma la necessità di isolarsi dall' orribile mondo esterno vedo che si diffonde sempre di più». Su una cosa Miki e il mondo fuori dalla sua stanza sono d' accordo: gli hikikomori, anche in Italia, sono sempre di più. Non esistono statistiche sulla «lost generation» nostrana. Solo le testimonianze di psicologi: oltre 50 i casi che abbiamo registrato. E le storie (nascoste dietro nomi di fantasia) di Alex: 16 anni e una vita in 20 mq scandita dal rombo degli aerei di Malpensa; Andrea: un anno in più di Alex e una «cella» alle porte di Brescia; Valentina: rinchiusa in un appartamento sull' Adriatico; Luca: solo di recente uscito dal suo «guscio» in Gallura. Più maschi che femmine. Quasi sempre «under 18», almeno in Italia. Molto intelligenti, creativi, ma introversi. Letteralmente giovani «in ritiro», ragazzi che senza un apparente motivo si chiudono nella loro stanza. Chi (come Oblomov di Goncarov) per incapacità di affrontare il mondo, chi (è il caso di Miki) per esprimere la sua rabbia. E ancora: chi per mesi, chi per anni. Il record nostrano: tre-quattro anni. Quello nipponico: 15 e più. Per alcuni la clausura è totale, per altri parziale: qualcuno esce dalla propria stanza per cenare con i genitori, per andare in vacanza, chi vive solo è obbligato a farlo per comprare del cibo nel supermercato più vicino. In Giappone gli hikikomori sono un fenomeno culturale e sociale: sono oltre un milione, l' 1% della popolazione, il 2% degli adolescenti. Alcuni ricercatori, tra cui Michael Zielenziger (suo il saggio Non voglio più vivere alla luce del sole), hanno avanzato l' ipotesi che anche la principessa Masako Owada, ne sia affetta. La colpa della loro autoreclusione è stata data alle pressioni sociali, alla severità del sistema scolastico, alla spinta verso l' omologazione, alle madri oppressive, ai padri assenti, al bullismo. Tamaki Saito è stato il primo psicoterapeuta a studiare quello che viene definito un disturbo («non una patologia»). Ma è stato anche il primo a evidenziare alcuni punti di contatto tra i ragazzi giapponesi e i «mammoni italiani». A ricordarlo è Carla Ricci, antropologa con una vita a Tokyo e autrice del libro Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione. «Il fenomeno è tipicamente giapponese. Ma da lì si sta allargando in Corea, Usa, Nord Europa, Italia». La prima analogia: «Lo stretto rapporto con la madre. Proprio il suo essere iperprotettiva, spesso entrambi i genitori lo sono, può rendere il figlio narcisista e fragile. E alla prima difficoltà si ritira». Inizia col passare sempre più ore nella sua camera, col disertare le cene in famiglia, niente amici, sport, cinema. «Finché un mattino dice di non voler più andare a scuola perché ha bisogno di riposarsi». Nell' ultimo anno all' Istituto «Minotauro» di Milano, dove lavorano Gustavo Pietropolli Charmet e Antonio Piotti, si sono rivolti i genitori di oltre 20 ragazzi. Le loro storie sono coperte dal più stretto riserbo. «Cinque i più gravi: vivono chiusi nelle loro stanze da ormai tre anni». Spiega Pietropolli Charmet: «In ogni momento storico e in ogni Paese i giovani hanno dato sfogo al loro malessere: le isteriche di Freud, i tossicodipendenti anni ' 60-' 70, le nostre anoressiche. Gli hikikomori sono figli della cultura giapponese, ma i nostri "autoreclusi" condividono con loro più di un aspetto». Continua Piotti: «Innanzitutto la vergogna narcisistica. Lo scarto tra il loro desiderato e il reale è troppo forte. Colpa anche delle eccessive aspettative dei genitori». All' origine c' è poi spesso una fobia scolastica. «Ma mentre i ragazzi giapponesi fuggono da regole troppo severe, i nostri scappano dall' incapacità di gestire relazioni di gruppo». Identico il risultato: «Si chiudono in una stanza. Sostituiscono la vita reale con quella virtuale. Ma Internet e i giochi di ruolo sono solo una conseguenza, non una causa», afferma Giuseppe Lavenia, del Centro Nostos di Senigallia, una decina di casi trattati. Spesso, come le anoressiche, negano il proprio corpo. Ultimo passo: l' inversione del ritmo circadiano, vivono di notte e dormono di giorno. Più il ragazzo vive nel suo guscio, e per questo soffre, più è difficile farlo uscire. «Il problema è entrare in contatto con loro», dice Giovanna Montinari, psicoterapeuta della cooperativa romana «Rifornimento in volo», altri due casi allo studio. Non resta che parlare con i genitori, con gli amici. «Ma a volte il contatto arriva solo grazie a quello che chiamiamo "compagno o fratello maggiore", un giovane psicoterapeuta». È il caso di Alex: la prima persona a cui ha aperto la porta, dopo oltre sei mesi di autoreclusione, è stata la «sorella maggiore» che ha bussato alla sua chat.  Di giovani auto-reclusi si è occupato anche un film italiano dal titolo «Hikikomori» del regista Marco Prati, storia di un trentenne la cui vita viene stravolta da una giovane incrociata in metrò

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