Magazine Ecologia e Ambiente
Ormai è un dato di fatto incontrovertibile: la crescita economica non produce più benessere né migliora la qualità del nostro vivere. E’ l’assunto dal quale prende spunto il bel libro dal titolo “La società post-crescita” (Edizioni Egea, pp.420, €. 26,50), di Giampaolo Fabris, docente di Sociologia dei consumi alla IULM. In passato la crescita dell’economia è sempre stata considerata quasi un sinonimo e/o un presupposto del benessere che si identificava con la celebre American way of life ovvero quel modello esemplare di vita e di consumi che gli USA, per circa un secolo, hanno proposto al mondo.
La crisi economica ha drammaticamente messo in luce quanto la strada del consumismo portato all’eccesso, come unica via per la risoluzione dei nostri problemi, sia sempre meno praticabile.
Non è pensabile continuare a consumare sempre più, non solo per scelta, ma addirittura per una sorta di doverosità morale a sostegno dell’impalcatura economica, così come talora invece sentiamo suggerirci da alcuni.
Ha senso cambiare cellulare sempre più spesso (le statistiche parlano per l’Italia di una media di 18 mesi di vita per il nostro cellulare), ha senso dilatare il nostro guardaroba con nuovi capi quando i nostri armadi a casa non ne contengono più, ha ancora senso avere non una ma 2 auto di proprietà parcheggiate sotto casa e che le statistiche ci dicono in media usiamo 2 ore al giorno?
Luoghi emblematici di questo modello considero l’edicola sotto casa - dove ci vengono propinate settimanalmente collezioni di ogni genere di oggetti-paccottiglia (dai modellini di auto agli orologi) privi di qualunque valore – e il nostro ufficio postale ormai trasformato in gran bazar dove si acquista dalla scheda sim, ai giocattoli, ai libri, (e dove tra l’altro riuscire a pagare un bollettino è divenuta un’esperienza estenuante!).
Ormai le imprese inseguono il consumatore in tutti gli aspetti della sua vita fino a creare in lui talvolta stadi di vera esasperazione. Non so a voi, ma nella mia esperienza personale, ad esempio, non passa giorno in cui a casa o in ufficio non riceva telefonate e/o fax - non parliamo poi delle decine e decine di mail- con proposte di nuovi piani tariffari, cambi di gestore telefonico, offerte di acquisto di prodotti alimentari! Il classico spot pubblicitario va sempre più perdendo efficacia ed allora si cercano nuove strade sempre più invasive.
Il mondo occidentale sembra affetto da una sorta di bulimia da consumo che contraddistingue tutti gli aspetti della nostra vita. Un recente studio dell’Università della Carolina ha rilevato come per la prima volta nel mondo il numero di obesi (circa un miliardo) abbia superato il numero delle persone denutrite (circa 800 milioni).
Uno studio dell’Istituto Mario Negri mostra che in Italia ogni anno vengono gettate via perché scadute circa 10 confezioni di medicinali a famiglia (equivalenti a 800 milioni di Euro), ed i cui due terzi terminano in discarica in quanto non sono differenziate nella raccolta dei rifiuti. Ed a proposito dei rifiuti, il packaging dei nostri prodotti ci sta letteralmente sommergendo.
Le nostre città corrono il rischio di diventare sempre più simili alla Leonia che Italo Calvino, in uno dei suoi celebri racconti, immagina travolta dagli stessi rifiuti che produce (e i recenti casi di Napoli e Palermo in fondo ne sono un esempio emblematico).
Guido Viale osserva come “il costo di una confezione di pomodori in scatola è di pochi centesimi ma il costo del suo smaltimento come rifiuto è tre volte tanto. Se si considera poi il degrado ambientale che questo rifiuto provoca, il costo complessivo di questo imballaggio sarebbe anche dieci volte maggiore”. La spesa alimentare va costantemente riducendosi nei bilanci delle famiglie: ancora agli inizi degli anni Settanta essa assorbiva circa il 36% della spesa mentre nel 2009 ammonta al solo 15,6%. La spesa per la comunicazione sta superando quella alimentare. Il solo cellulare assorbe il 6% della spesa familiare per non parlare di quanto incida sui nostri budget quella per l’auto. Oggi un litro di benzina costa quanto un kg. di pasta che a sua volta costa quanto un biglietto per il tram!
Per fortuna sembra che qualcosa stia mutando nel comportamento individuale. Una serie di indagini condotte sul consumo, e illustrate con dovizia di dati e rigore scientifico riportati in questo testo, tendono a dimostrare come stiano emergendo modelli di consumo diversi da quelli sinora egemoni e che vanno in direzione di un consumismo meno esasperato ma non verso la cosiddetta decrescita auspicata da taluni (Serge Latouche e Maurizio Pallante, solo per citare i primi che mi vengono in mente e non tralasciando Wolfgang Sachs le cui posizioni sono tuttavia meno ortodosse rispetto ai primi due).
Anzi, Fabris, nei confronti della filosofia della decrescita, è piuttosto critico definendola un’utopia anacronistica. Oggi il consumatore medio inizia a manifestare segni di disagio e sazietà nei confronti di un’iperofferta inarrestabile e cerca di reagire a questo stato di cose con un atteggiamento meno passivo rispetto al passato, più attento e consapevole e tuttavia lontano dal “fermate il mondo voglio scendere” proposto dai profeti della decrescita. A tale riguardo Fabris pone una questione molto semplice: “Come è possibile – egli si chiede - imporre di tirare il freno a mano a chi si affaccia appena adesso ad un livello di benessere diffuso? Ed ancora come possiamo lottare contro la povertà e la fame che attanaglia ancora più di un miliardo di persone nel mondo, riducendo drasticamente i consumi?”
Tra capitalismo e decrescita può svilupparsi, e ciò sta già accadendo in talune fasce ancora minoritarie della popolazione italiana, una terza via, quella appunto che Fabris definisce della post-crescita e che coniuga qualcosa di entrambe le due filosofie.
Sembra dunque che stia emergendo un nuovo trend. Tra i primi cambiamenti riscontrati da Fabris emerge una progressiva acquisizione di sensibilità ambientale. La presa di consapevolezza della progressiva distruzione delle risorse naturali, dell’innalzamento della temperatura del pianeta, degli effetti del consumo eccessivo delle risorse in precedenza trascurati, stanno finendo per convergere nella presa di coscienza da parte di alcuni di noi che l’attuale modello di sviluppo basato sul presupposto di una crescita continua e illimitata dei consumi comincia ormai a entrare in crisi.
Sta nascendo una nuova figura di consumatore riflessivo – sostiene ancora Fabris – in cerca di un equilibrio tra l’avidità di ieri e l’anoressia predicata dai sostenitori della decrescita. A tale proposito egli prende ad esempio la nascita in questi ultimi anni di fenomeni collettivi quali i GAC (Gruppi di Acquisto Collettivi) ed i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) che si ispirano ai principi del localismo e del consumo consapevole.
In fondo è proprio attraverso le scelte alimentari, del vestiario, dell’abitazione e del suo arredo, dell’impiego del tempo libero e delle letture che si definisce il nostro stile di vita. E questo in qualche modo supera, per importanza, perfino la scelta del voto politico. Oggi quando acquistiamo un prodotto esprimiamo una preferenza esattamente come quando andiamo a votare alle elezioni. La differenza sta nel fatto che il consumo appare ora un’arma molto più affilata del voto.
Anche Fabris, almeno in questo in totale sintonia con Serge Latouche, prende le distanze, nella propria analisi, dal PIL come attendibile misuratore della crescita economica e del benessere di un Paese. Esso si rivela, a suo parere, ormai un sistema anacronistico e addirittura “socialmente offensivo”. Del resto già nel lontano 1968 anche Bob Kennedy in un suo celebre discorso aveva affermato come “ad alimentare il PIL sono anche l’inquinamento dell’aria, il costo delle ambulanze che intervengono sulle strade per gli incidenti,… le serrature per barricare le nostre case, i costi della prigione per chi le infrange…”. Il PIL oggi non misura la qualità dei prodotti, la loro compatibilità ambientale, la qualità della vita. Da qui la necessità, ormai sostenuta da molti, di individuare nuovi indicatori per la misurazione dello stato di sviluppo di un Paese.
Ci stiamo avviando dunque ad una nuova fase che appunto Fabris definisce di post-crescita e di post-consumismo. Come protagonisti di questa nuova fase egli indica tre soggetti: il consumatore, lo Stato, il sistema delle imprese. Tra questi, a suo avviso, sarà proprio il consumatore ad avere il maggior peso e la maggiore importanza nel contribuire al cambiamento che ci attende. Il nuovo consumatore dovrà tenere un atteggiamento responsabile nei confronti delle patologie ambientali indotte dal consumo, critico verso modelli improntati allo spreco e consapevole anche del significato politico che le sue scelte di consumo potranno svolgere.
Fabris, tra le sue tante considerazioni, ne fa una che condivido particolarmente. Egli mostra seria preoccupazione e indica come uno dei principali ostacoli alla diffusione di questa sorta di new deal dei consumi, l’integralismo di segmenti di popolazione che si propongono come avanguardie di questo nuovo modello e segnatamente del cosiddetto “ambientalismo del NO” e di una cultura radical chic che hanno come comun denominatore l’avversione assoluta per il capitalismo, l’ostracismo incondizionato contro le grandi aziende multinazionali e l’adesione ad una visione del mondo tra l’ascetico e l’esclusivo impegno militante. Egli definisce queste frange che predicano una sorta di ritorno allo stato di natura preindustriale come “talebane” e stigmatizza certe loro scelte (il bagno da farsi una volta al mese, l’acqua del cesso da tirare una volta al giorno, la vocazione al bricolage e via dicendo) magari singolarmente apprezzabili ma che finiscono con lo scadere nel caricaturale quando si pretende vengano messe a sistema. Insomma pur manifestandone il massimo rispetto, Fabris teme che con il loro scostante massimalismo certi comportamenti possano alla fine scoraggiare un vasto pubblico di persone interclassista ed intergenerazionale che ha l’assoluta necessità di trovare punti di unione che coagulino queste nuove sensibilità emergenti che oggi iniziano a manifestarsi a più livelli e delle quali in questo testo viene proposta un’attenta analisi.
Vediamo di elencarne le principali:
Poco meno dei due terzi della popolazione oggi afferma di preferire, a parità di costo, una marca attiva in difesa dell’ambiente.
Una fetta sempre più consistente della popolazione oggi percepisce lo spreco come un disvalore. A sostegno di questa tesi mi si permetta una breve digressione: di tutte le forme di spreco quella alimentare è certo la più imbarazzante. Si calcola che circa un quinto della spesa alimentare finisca nelle immondizie. Una media di circa 600 euro annue per famiglia: 27 kg. di cibo!
Un altro trend significativo è il progressivo passaggio dal possesso di un oggetto al suo accesso: per dirla con le parole di Jeremy Rifkin si riscontra un passaggio dal regime di proprietà basato sulla titolarietà di un bene al regime di accesso basato sulla garanzia di disponibilità temporanea di quello stesso bene. Potremmo fare moltissimi esempi a tal proposito. Basti pensare alle note pratiche del leasing o del franchising. In generale tutto ciò che si può prendere in affitto, in luogo dell’acquisto, sta registrando una forte accelerazione. La stessa mitologia della seconda casa al mare o in montagna sta ridimensionandosi a vantaggio dei soggiorni in agriturismo o su navi da crociera o in alternativa delle case in multiproprietà. Lo scambio, il baratto, anche delle case, sono divenuti di grande attualità. La stessa gratuità comincia ad assumere connotazioni importanti ed in tal senso l’utilizzo di internet ne rappresenta un veicolo imprescindibile: pensiamo solo alla possibilità di scaricare dalla rete non solo una quantità enorme di dati ed informazioni gratuite, ma addirittura file musicali e film.
Una pratica già accennata è quella del diffondersi dei Gruppi di Acquisto, i GAS, cui si aggiunge il parallelo sviluppo dei cosiddetti Farmer Market ovvero punti vendita di prodotti alimentari gestiti direttamente dai contadini-produttori che riducono drasticamente l’intermediazione commerciale sul prezzo e garantiscono al consumatore la genuinità e la provenienza del prodotto oltre ad abbattere le cosiddette esternalità dei costi.
Si sta riscontrando un sempre maggiore gradimento per il biologico (22% di italiani nel 2008 e 26% nel 2009!). Questo dato risulta particolarmente interessante specie se ne valutiamo gli aspetti economici. Un prodotto biologico costa in media circa un quinto in più rispetto a quello tradizionale, eppure, nonostante la contingenza economica poco favorevole, se ne registra da alcuni anni un costante aumento nelle percentuali d’acquisto. Tra l’altro - altra brevissima digressione - l’Italia, con i suoi 50.000 produttori e gli oltre un milione di ettari di terreno dedicati, risulta essere il primo Paese al mondo nell’agroalimentare biologico.
Ma analoghe controtendenze le possiamo riscontrare sia nel settore dell’abbigliamento che in quello del consumo dei prodotti cosmetici e perfino in quello dei trasporti dove si registra un sensibile ritorno all’uso della bicicletta come mezzo di locomozione, specie nelle grandi città. A tal proposito il costante propagarsi del bike-sharing (la condivisione della bicicletta tra più utenti) ne è un’eccellente dimostrazione.
Un altro fenomeno in costante crescita è quello del cosiddetto “ecoturismo”. E’ ormai un dato di fatto facilmente riscontrabile quello del proliferare negli ultimi anni degli Agriturismi. Tra le principali motivazioni che hanno indotto molti a prediligere questa nuova forma di vacanza ci sono un diverso rapporto con la natura e l’ambiente, la ricerca di una formula meno omologabile alla vacanza tradizionale, ma soprattutto l’attenzione verso l’ambiente, l’idea di una vacanza ecosostenibile e la possibilità per chi vive da sempre in città di ristabilire un contatto e anche un interscambio culturale con il mondo rurale che, ad esempio, ormai i nostri figli ignorano.
Anche nel campo dei rifiuti si registrano dei passi importanti. Farsi carico dello smaltimento dei rifiuti sta divenendo un vero dovere civico. Oggi circa i due terzi dei nostri rifiuti sono da accreditare direttamente o indirettamente alle confezioni dei prodotti che acquistiamo. In questo senso la disponibilità delle persone a farsi carico del problema è decisamente aumentata rispetto ad una decina di anni fa. Le indagini restituiscono addirittura l’orgoglio dei cittadini di certe aree o comuni (in Toscana il Comune di Capannori (LU) ne è un esempio) nel dichiarare il primato della propria zona in questo tipo d’impegno considerato ormai come una battaglia di civiltà che deve vedere la partecipazione di tutti.
Anche il recente favore verso l’utilizzo di prodotti sfusi o alla spina è estremamente indicativo in proposito.
In generale da questa ricerca emerge con chiarezza una crescente consapevolezza da parte del consumatore che tramite le scelte di acquisto si può esprimere anche un implicito messaggio di premio per marche, prodotti, servizi virtuosi. Sia pur lentamente si sta facendo avanti un sentire sempre più critico verso il mondo dell’iperconsumo e sempre più attento non solo a come le merci possono soddisfare i bisogni, ma pure a quali danni sociali e politici esse possono essersi lasciate alle spalle nel loro processo di produzione.
Si sta delineando, insomma, sempre più chiaramente una nuova figura di consumatore autonomo, competente, esigente, selettivo, disincantato, responsabile e riflessivo, quello che con una felice intuizione Maria Romana Zorino ha definito un consum-attore.
Fabbri paragona questa nuova figura del "consum-attore" al personaggio mitologico di Prometeo. Così come Prometeo riuscì ad impossessarsi del fuoco sottraendolo all’Olimpo, oggi il neo consumatore è riuscito ad impossessarsi della conoscenza del prodotto un tempo esclusiva delle aziende produttrici. Tuttavia, e il paragone non è casuale, come Prometeo fu incatenato dagli Dei così ancora oggi sono molti gli ostacoli che le aziende frappongono tra il consumatore e l’acquisizione di una sua totale consapevolezza. Questo a considerazione del fatto che molto lavoro deve ancora essere compiuto e sarebbe davvero illusorio ritenere di essere già fuori dal problema. Ancora una volta però il mito ci viene in soccorso: così come Eracle liberò Prometeo dalle catene, le straordinarie potenzialità del Web nel consentire a chiunque di accedere a dati e informazioni altrimenti di difficile reperibilità vengono considerate da Fabris come una delle armi più potenti a nostra disposizione per contrastare questo deficit di conoscenze che ancora impedisce ai più tra noi di entrare in possesso della verità ed agire di conseguenza.
Piero Bevilacqua, nel suo “Miseria dello sviluppo” scrive: “Cosa c’è da sviluppare o innovare in un habitat salubre o incontaminato, nel paesaggio delle campagne d’Italia o di Francia, nei centri storici delle città d’Europa e del mondo, nelle nostre piazze, nelle tradizioni alimentari mediterranee e di tutti i paesi ereditate da millenni di sapienza popolare? Che cosa c’è da innovare nell’immenso patrimonio artistico che ereditiamo dal passato, nell’eterno diletto di leggere romanzi, passeggiare per i boschi, osservare il mare, contemplare il cielo stellato? Che cosa rimane ancora da sviluppare della gioia di conversare con i propri figli, stare con gli amici, fare l’amore, giocare con i nostri animali? Nulla, in realtà, di ciò per cui vale la pena di vivere ha bisogno di essere sviluppato”.
Sogno il tempo in cui simili parole torneranno ad essere scontate per la maggioranza di noi.
Michele Salvadori