Sono trascorsi abbastanza giorni dall’atto terroristico che ha colpito direttamente la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo ed indirettamente il cuore “democratico” di tutte le nazioni del mondo, scese in piazza unite per dimostrare la loro posizione nella difesa ad oltranza della libertà di espressione, nonostante tutto.
Dopo questi giorni carichi di valutazioni e di analisi sociali e politiche scritte e raccontate subito dopo l’evento infausto, quindi di getto, ho trovato opportuno attendere qualche giorno per un fisiologico rasserenamento dei pensieri, così da poter esplicitare posizioni meno cariche di solidarietà al dolore, che seppur giustificato, spesso comporta una valutazione erronea in determinati fenomeni.
Si è parlato molto, davvero tanto, e si è altrettanto fatto molto, per sancire una profonda cesura rispetto agli atti vili e carichi di violenza ai danni di Charlie Hebdo, al di là delle considerazioni sul reale obiettivo degli attentatori di “vendicare il Profeta”, deriso e vilipeso più volte dalle vignette satiriche del giornale.
Superando anche e profondamente ogni ricostruzione degli eventi che si potrebbero prestare anche ad una lettura dietrologica, derivante dalle palesi contraddizioni che emergono dagli elementi emersi nelle notizie riportate dai media, vorrei soffermarmi sull’incoerenza “democratica” che si genera ogni volta, conseguentemente ad un evento così deplorevole, senza ovviamente voler giustificare l’atto in sé, che non mi stancherò mai di condannare.
La solidarietà al dolore è davvero una pratica caratteristica delle società tradizionali democratiche, dove è molto più semplice usufruire dei diritti politici e sociali derivanti dall’appartenenza ai regimi democratici di visione moderna, quindi risulta anche una pratica ovvia e “naturale” che si genera proprio come conseguenza agli atti violenti, come quello che ha colpito la redazione del giornale satirico francese.
Si scende in piazza, si manifesta in gruppo spesso per dimostrare il senso comune della solidarietà che abbraccia persone con esperienze ed estrazione sociale diverse, a volte anche profondamente, così da dimostrare la volontà popolare ed in questo caso la volontà popolare di lasciar libero il pensiero umano dall’imbrigliamento, in questo caso, della violenza.
Ci si appella quindi al senso comune del “Je suis Charlie”, il singolo diventa collettivo, Siamo tutti Charlie, individualmente e in modo collettivo, dimenticando però che quel risultato, l’atto in sé dell’identificazione per difendere il carattere speciale ed individuale di Charlie è avvenuto proprio perché prima di quell’evento, di quella tragedia, nessuno era Charlie, ma solo Charlie lo era, ed era solo.
È semplice ora, quindi, chiamarsi tutti Charlie, pensare come Charlie, quando a pagarne le conseguenze è stato solo Charlie, ed è ancora più semplice chiamarsi Charlie quando, prima, in Italia ed in altre nazioni, ammantate di quel senso democratico per la libertà di espressione che esiste, collettivamente, solo quando viene tolta ad un singolo, rendendola “mediaticamente” un valore per tutti, veniva strutturata una censura “giustificata”, come se la troppa libertà ai mezzi di comunicazione, soprattutto Internet (si ricordi il disegno di legge di alcuni deputati sul bavaglio ai blogger, Wikipedia compresa) fosse una cosa buona e giusta per la democrazia moderna.
Continuo, quindi, ancora a non capire il senso di quella solidarietà selettiva.
Selettiva perché non è generalizzata, non è per tutti quindi e la sua strutturazione dipende dal ruolo, sempre primario, dell’elite istituzionale.
Sono passati tanti e tanti anni da quello scenario geopolitico che vedeva sul filo della tensione, da una parte le madrepatrie, democraticamente sempre giustificate, soprattutto nelle loro violenze, e dall’altra le colonie, che invece avevano nella violenza, ovviamente mai giustificata per i “democratici”, la loro unica arma per il sovvertimento di quell’ordine “democratico” tanto caro alle capitali europee.
Lo scenario non è mica cambiato.
Qualcuno potrebbe obiettare che l’evento accaduto in Francia e questo mio discorso sul colonialismo difficilmente si possano legare e quindi non è sensato, anzi è demagogico, collegarli.
Il problema non è nella forzatura del collegamento tra questi due eventi, uno, evento drammatico singolo, l’altro fenomeno endemico ancora più drammatico ma mai contraddistinto dallo sdegno e dalle marce della “pace” degli europei, che continuano a strutturare pratiche ed idee sulla base dell’etnocentrismo, talvolta generale ( Occidente, Africa), e talaltra particolare (in Italia soprattutto tra Nord e Sud) ma nella considerazione fattuale del loro rapporto, laddove il fenomeno crea l’evento e non viceversa.
Quello che più mi ha colpito di questa “coerenza democratica” tutta Europea è nel vedere in testa al corteo “senza popolo” dei leader nazionali anche Benjamin Netanyahu, in prima fila per la lotta contro il terrorismo. Sì proprio lui, lui che si è macchiato dei più atroci crimini di guerra contro il popolo palestinese, che marcia per la libertà, contro il terrorismo islamico.
Ecco, io in questo, in tutto questo non riesco proprio a vedere quella tanto decantata coerenza democratica, quel sentimento di libertà, di lotta contro le atrocità, contro i crimini, che come funghi dopo una tempesta, nascono solo quando vengono urtate le fragili sensibilità individuali dei cuori europei, che invece, prontamente, salvo in casi eccezionali, diventano di ghiaccio se chi muore è lontano chilometri da casa loro, oppure non appartiene alla “loro cara” comunità.
Basti pensare non solo alla Palestina ma anche alle vittime che in questi giorni cadono come foglie sotto le violenze dei Boko Haram, oppure i Migranti che, nonostante le manifestazioni per la libertà di espressione( come se la libertà fosse anch’essa selettiva a seconda della parola che viene dopo: libertà di espressione sì se sei un vignettista, libertà di vivere no se sei un migrante), continuano a morire nell’indifferenza del mondo.
Probabilmente è l’abitudine che cambia la nostra reazione agli eventi.
Domani torneremo ad essere sempre gli stessi, continueremo a piangere davanti ai televisori per le immagini delle vittime della crudele povertà, mentre fuori dalla nostra porta i poveri stanno ancora bussando ma noi, continueremo a non aprire.
La solidarietà non è un punto di vista temporaneo, non è una reazione volontaria e nemmeno una moda, la solidarietà è semplicemente una disposizione dell’anima, o c’è o non c’è.