Uno studio di Julianne Holt-Lunstad e Timothy Smith della Brigham Young University di Provo (Utah, Usa) pubblicato su PLoS Medicine afferma che stabilire relazioni sociali crea un’attesa di vita di gran lunga superiore rispetto alla scelta di vivere in solitudine.
La percentuale di rischio di ammalarsi per questa seconda categoria è, infatti, paragonabile e in alcuni casi addirittura superiore a quella associata ai fumatori e all’obesità.
Lo studio non approfondisce l’analisi nel tipo di rapporto; quindi non definisce una specifica relazione come ottimale.
Questa può essere indifferentemente identificata nell’ambito familiare, lavorativo o di amicizia.
Semmai pone l’accento sui maggiori benefici ottenibili attraverso relazioni importanti rispetto a quelle più superficiali.
Infatti, lo studio indica che:
Attraverso 148 studi (308.849 partecipanti), gli effetti casuali (…) indicano un aumento del 50% di probabilità di sopravvivenza per i partecipanti con le più forti relazioni sociali.
L’essere umano è dunque un “animale sociale” e in maggior misura tende istintivamente alla relazione con i simili.
Ci si potrebbe interrogare sulle capacità e opportunità di aggregazione sociale che caratterizzano quest’epoca.
Grandissima rilevanza ha la diffusione del web con i suoi social network che però resta impraticabile per le fasce di età più elevate e che sono spesso le più esposte alla solitudine.
Per i giovani invece il web è talmente accessibile e familiare da sostituire in alcuni casi la frequentazione fisica con l’altro.Un’estensione del pensiero su questo studio potrebbe farci domandare a cosa siamo disposti pur di evitare la solitudine.
In questo caso entrerebbe in gioco la psicologia a spiegare che:
E’ importante sottolineare che la solitudine che interessa davvero non è un dato oggettivo, misurabile con il numero di persone con cui ci si relaziona, ma un sentimento soggettivo, un sentirsi soli determinato dalla qualità delle relazioni nelle quali si è coinvolti. Si capisce così che non tutte le relazioni sono protettive di per sé o hanno conseguenze positive sulla salute e la qualità della vita, è necessario che forniscano vicinanza affettiva, sostegno e partecipazione.È dunque evidente che la solitudine, dal punto di vista psicologico, non è condizione necessariamente negativa se può costituire un’alternativa ad una situazione di convivenza dolorosa.
In questo senso, è preferibile ad esempio condurre una serena esistenza da single anziché perseverare in un matrimonio infelice.Sembrerebbe perciò importante identificare non solo coloro con i quali sia possibile instaurare relazioni sociali ma sarebbe certamente utile capire con quanti di questi si potranno instaurare rapporti positivi e costruttivi.
Compito non facile che impone innanzitutto una profonda conoscenza di sé e solo in seguito quella degli altri.
E se la conoscenza di sé presume fondamentalmente la solitudine come condizione intima e almeno limitata in un particolare periodo, allora è importante non demonizzare l’ “isolamento” ma interpretarlo come strumento momentaneo per il raggiungimento di uno scopo ben preciso.