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La Solitudine dei Numeri Primi

Creato il 18 marzo 2011 da Zaziefromparis
La Solitudine dei Numeri PrimiIeri sera, in un cinema del Marais che mi sta molto simpatico, il Nouveau Latina, c’è stata l’anteprima francese (la vera uscita parigina è prevista solo il 4 Maggio) della Solitudine dei Numeri Primi, il film tratto dal best-seller di Paolo Giordano.
Ci sono andata senza particolari aspettative, non avendo mai percepito dai giornali, dalle riviste specializzate o anche solo dal giudizio degli amici italiani (ma forse vivendo qui mi è completamente sfuggito), una parola buona rispetto a quest’opera. 

La trasposizione in immagini di un romanzo come quello di Giordano, in teoria, era pericolosissima: il didascalico, lo stile "film per la TV", gli attori al di sopra delle righe, la regia qualsiasi, erano tutti lì in agguato pronti a mangiarsi il film intero. E infatti temevo, ma mi sbagliavo, perché mi sono trovata davanti un gioiello raro.La storia è nota. Esseri umani danneggiati e solitari a causa di eventi traumatici che ne hanno segnato l'infanzia (e pure il resto della vita), Mattia e Alice si incontrano quando sono adolescenti e si riconoscono subito: lei zoppica ed è anoressica, lui si autoinfligge ferite su tutto il corpo. Entrambi barcollanti sotto il peso dei rispettivi dolori, segreti, solitudini, famiglie complicate e difficoltà di contatto con il mondo esterno e con i loro coetanei, i due ragazzi cercano l'uno nell'altra, senza mai veramente riuscirci, una via di fuga, una possibile felicità.

Un regista senza palle e senza stile, secondo me, avrebbe fatto così: spiattellamento iniziale dei traumi, in modo che lo spettatore si identifichi tempo zero e pensi "Poverini, con un dramma così alle spalle, per forza sono diventati dei disadattati sociali" e poi via, leggiadro, di sfiga in sfiga, fino all'annientamento finale. Invece Saverio Costanzo sa, eccome se lo sa, quello che vuole, e trasforma questo racconto in una fiaba gotica, in un racconto dell'orrore, stravolgendo la temporalità e costrigendo lo spettatore a entrare nel film per osmosi, come una malattia che si insinua sotto la pelle. Questo accade sin dalle bellissime scene iniziali, quelle di una innocua recita scolastica che diventa un incubo sonoro (la musica, non a caso, è rubata ad un film di Dario Argento) e visivo (i volti dei bambini, truccati per la rappresentazione, appaiono mostruosi). Ma altrettanto potente è il momento in cui Mattia e Alice si incrociano per la prima volta in un corridoio della scuola: quell'attimo sospeso, il ralenti, lo scatto impercettibile delle testa, il gesto quotidiano in grado di cambiare il percorso di una vita. E ancora, straordinaria, quell'immagine fantastica, irreale, di Mattia e Alice seduti in macchina, mentre fuori piove, poi smette, e ci sono solo le luci della notte, e loro stanno andando ma sono fermi, sospesi, in questo microcosmo dove c'è posto solo per loro due e per il terribile segreto che uno di loro sta per raccontare, ma non ancora.Questo percorso, questa storia, sarebbero però ben poca cosa senza la bravura degli attori che un direttore casting baciato dal genio ha saputo selezionare: Alba Rohrwacher sta dimostrando, di film in film, di essere la più brava attrice Italiana della sua generazione. Qui, in un numero degno dell'Actor's Studio, si è ridotta pelle e ossa per dare corpo ad un dolore senza voce (di così magro, al cinema, io ricordo solo Michael Fassbender in Hunger di Steve McQueen e Christian Bale in The Machinist di Brad Anderson). Luca Marinelli, al primo (si spera di una lunga serie) film, ha uno sguardo spiritato e la giusta presenza scenica, quella che permette di parlare pochissimo e dire tanto. E una menzione speciale ai giovanissimi attori che hanno interpretato Mattia e Alice da bambini e da adolescenti. Di solito i film italiani sono specializzati nella creazione di piccoli attori-mostri che recitano in maniera del tutto innaturale, qui invece la loro intepretazione ha del miracoloso. Isabella Rossellini è perfetta nella parte della mamma di Mattia (impossibile non pensare all'altro suo bellissimo ruolo di madre in Two Lovers di James Gray) e Filippo Timi, grazie ad una sola scena, riconferma intatto, se mai ce ne fosse bisogno, tutto il suo talento.Il film, in concorso all'ultimo Festival di Venezia, non ha ricevuto nessun premio. Dalla giuria che ha assegnato il Leone d'Oro al film più inutile, pretenzioso e noioso della storia del cinema (Somewhere della Coppola), non mi aspettavo niente di meglio.

Peccato, perché qui non c'è uno che fa giri a vuoto con la sua Ferrari, qui c'è gente che soffre veramente, e per di più con stile.  

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