di Giuseppe Panella
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«Ce grand malheur, de ne pouvoir être seul»
(La Bruyère)
1. Il patto autobiografico
Sembra evidente, anche ad un esame non eccessivamente approfondito, come l’evidenza e la suggestione autobiografica abbia affascinato un certo numero di critici letterari italiani desiderosi di trasformare il loro approccio (finora avvenuto dall’esterno) agli autori che hanno studiato in una proposta di lettura che passa attraverso la loro dimensione più intima e più personale.
Sembrerebbe dimostrarlo una serie di libri (nella maggior parte piuttosto smilzi e umili anche nella veste grafica) i cui autori si fanno forza delle loro esperienze di lettura in età giovanile per avanzare ipotesi più o meno catastrofistiche sul destino della poesia e della critica letteraria.
La prospettiva personale di analisi dei testi risulta sicuramente interessante dati i nomi che la propongono con tanta autorevolezza anche se questo modello di verifica della qualità letteraria sembrava abbandonato da tempo in vista di metodologie più obiettive.
Il fascino di saggi come Ringraziamento per una ballata di Paul Fort di Renato Serra pubblicato su “La Voce” nel 1914 è ancora forte ma il tempo di quel modo di fare critica della poesia appare certamente lontano. Non si tratta certo di contrapporre un modello tutto “soggettivo” di lettura delle opere letterarie ad un altro che pretenda di essere rigorosamente “oggettivo” e privo delle spigolosità e idiosincrasie personali che contraddistinguono di solito anche il più acribico dei “lettori di professione” (come, infatti, si definì brillantemente proprio Serra).
Ma il caso occorso è singolare nei modi e nei toni e, a mio avviso, merita una menzione di merito.
In quello che sembra essere il suo “addio alla critica letteraria”, Mario Lavagetto rievoca il suo primo approccio alla lettura della poesia:
«Molti anni fa, studente dell’ultimo anno di Liceo, andai con alcuni compagni di classe a sentire una lezione di Ungaretti su Leopardi all’Università di Roma. Eravamo pieni di febbrili aspettative e uscimmo sconcertati e delusi: il vecchio poeta aveva debuttato leggendo (meravigliosamente) Alla luna. Arrivato alla fine della sua lettura era rimasto in silenzio, con istrionica impassibilità, per qualche minuto, poi aveva borbottato: “E’ meraviglioso… non c’è niente, proprio niente da dire” e aveva letto e riletto ripetutamente il testo fino a quando il tempo della lezione fu completamente esaurito» (Mario Lavagetto, Eutanasia della critica, Torino, Einaudi, 2005, p. 9).
Il tempo della lezione corrisponde al tempo della lettura del testo poetico e la comprensione di esso viene totalmente affidata ad essa. E’ ovvia la delusione provata dall’aspirante critico in erba che avrebbe sperato dall’illustre maestro di poesia una parola “che mondi” potesse, montalianamente, “aprirgli” nell’interpretazione e nella ricerca della/e verità contenuta in quella poesia stessa.
Probabilmente non sapeva (ancora) che si trattava dello stesso metodo utilizzato da Ungaretti per tradurre Mallarmè – riprodurre alcune delle sue liriche tel quel senza provarsi a tradurlo adducendone come giustificazione l’impossibilità di farlo in maniera tale da non deturparne la preziosa cadenza e bellezza dell’originale. Ma la critica non può risolversi nella lettura senza introdurre in essa almeno una traccia di interpretazione del testo e senza provare a smontarlo per capire (e far capire) ai suoi lettori come funziona (o almeno come potrebbe funzionare).
E’ questa la funzione della critica, ovviamente, ma non solo. La letteratura tutta e, quindi anche la poesia, ha certamente bisogno di essere capace di parlare da sé ma non sempre questo è possibile.
Come la cattiva diagnosi di un medico compromette la salute del suo malato, la cattiva interpretazione (o la non interpretazione) di un testo ne compromette la possibile circolazione ed esistenza a venire. Come annota Heidegger citato e poi chiosato da Lavagetto:
«In ogni caso la scelta di una strategia rappresenta un impegno cruciale e di grande conseguenza etico-politica. “Quando un medico cura malamente i propri malati – ha detto una volta Heidegger – c’è pericolo per la loro vita. Quando un insegnante interpreta in modo inaccettabile una poesia “non succede nulla”. Ma forse sarebbe meglio parlare con maggiore cautela: quando si interpreta una poesia in modo insoddisfacente, tutto procede come se non accadesse nulla. Un bel giorno, tuttavia, dopo cinquanta o cento anni, succede qualcosa”. Non diversamente – io credo – se si leggessero i testi, soppresse tutte le mediazioni, non succederebbe in apparenza nulla, ma dopo cinquanta o cento anni ci si accorgerebbe che qualcosa è accaduto e che quei testi hanno smesso di parlare perché nessuno è tornato periodicamente a interrogarli. Si verificherebbe quanto Valéry aveva lucidamente paventato fin dal 1923 a proposito dei classici: “Ancora un po’ di tempo – diceva – e non li capiremo più» (Mario Lavagetto, Eutanasia della critica cit., pp. 86-87).
La solitudine del critico nasce da questa minaccia. Si tratta di una solitudine che la critica cerca di evitare esorcizzandolo e moltiplicando le ragioni della propria esistenza. Per farlo si riserva di attingere dal passato personale dei critici il perché delle loro scelte o addirittura la verità su di esse e sul loro perseguimento continuato nel tempo e negli anni trascorsi.
Lo stesso rovello autobiografico sembra caratterizzare anche Giulio Ferroni che in un suo testo più recente di quello di Lavagetto (La passion predominante. Perché la letteratura, Napoli, Liguori, 2009) ricapitola la sua storia di critico letterario a partire dall’infanzia e dai nomi dei poeti che hanno caratterizzato il suo interesse per la poesia e la letteratura.
«Dunque la letteratura: il primo nome letterario che ricordo di aver sentito era appunto romano e romanesco, quello del poeta Trilussa. Sono in un cinema di via Salaria, non so perché né con chi, forse con qualche amica di mia madre, e nell’intervallo dello spettacolo sento dire da qualcuno lì vicino, o forse da quella stessa amica, che è morto Trilussa, grande poeta romano (che poi in realtà ho sempre frequentato molto poco, a differenza del ben più grande Belli). Siamo dunque al 1950 (per la precisione la morte di Carlo Alberto Salustri risale al 21 dicembre 1950); […] un altro ricordo della morte di uno scrittore balena più tardi, quando ormai sono più grande, anche se nella mia mente sembra stranamente arretrare indietro: si tratta della morte di Benedetto Croce, di cui sento dire una mattina mentre sto andando a scuola, mente nel contempo scorgo la notizia in grandi caratteri sulle prime pagine dei quotidiani in mostra in un’edicola»
(Giulio Ferroni, La passion predominante cit. , p. 3).
All’epoca della morte di Croce, il critico romano aveva 10 anni – troppo giovane per conoscere tutte le implicazioni teoriche relative al filosofo idealista ma già curioso di eventi e di vicende legate al mondo della cultura letteraria.
Ferroni sembra far risalire la sua vocazione di critico non solo e non tanto agli studi scolastici primari e alle letture a latere fatte più “da grande” (come si intitola un capitolo del libro, il secondo) quanto all’incontro con studiosi che lo hanno indirizzato verso la lettura critica dei testi poetici e la passione per la loro possibile comprensione più profonda:
«Leopardi l’ho invece amato come ogni adolescente dei miei tempi, scoprendo nella sua poesia una voce solidale che dava senso al malessere adolescenziale, alle domande più determinate e insieme più semplici sui limiti della vita, sull’amore, sul dolore, la morte, il ricordo, il rimpianto, su tutto ciò che si ama e si perde, si dissolve nel nulla. Tante e a più riprese furono le letture dei Canti maggiori, anche se una lettura integrale venne solo più tardi, con l’arrivo di Walter Binni all’università di Roma, nel 1964, e con la scoperta di tutto il valore della filosofia leopardiana e del suo nesso con la poesia. Ma già prima di questo essenziale riconoscimento del Leopardi illuminista e materialista (che trovò nuove ragioni negli studi di Sebastiano Timpanaro) avevo sentito tutta la suggestione di quella lirica così perfettamente “classica” e tutta tesa a dar voce al presente, a risolvere il sentire personale in una percezione dello spazio e del tempo, in una insuperabile protesta contro il dissolversi delle speranze, contro l’evanescenza della bellezza, contro l’impossibilità dell’amore»
(Giulio Ferroni, La passion predominante cit., p. 43).
La letteratura, fin dagli esordi dell’apprendistato critico, si rivela come un futuro “mestiere” che contiene insieme una passione ardente e onnipervasiva – un momento formativo cruciale per la vita futura che si nutre dell’amore per i libri come strumento di comprensione di un reale il cui significato rischia di sfuggire o di divenire alla lunga lontano o come affievolito. La pratica della critica, in questo modo, si rivela desiderio e gusto di leggere e di capire la natura di ciò che è stato letto e non soltanto l’esibizione narcisistica di metodi e di teorie.
In un simile contesto di amore viscerale per la grande letteratura e per le sue forme espressive, si spiega come venga ripresa in chiave socio-culturale la nozione di “letteratura in pericolo” che Ferroni riprende da un fortunato libro di Tzvetan Todorov (La letteratura in pericolo, trad. it. di E. Lana, Milano, Garzanti, 2008) e che utilizza per denunciare il suo timore di una possibile fuoriuscita dalla ”Galassia Gutenberg” come perdita di rapporto diretto, fisico con la dimensione reale dell’approccio ai testi letterari.
«Così sotto il segno dell’informatica e di Internet si ricicla tutta la paccottiglia degli estremismi e anarchismi “desideranti”, in lotta contro ogni residuo dell’umanesimo illuministico. L’uscita dalla “galassia Gutenberg” liberando la mente, l’occhio e la mano dalla fissità della scrittura e dai modelli ideologici “forti” che essa sosterrebbe, sarebbe l’anticamera di una rivoluzione che si dà nell’atto stesso di dirsi, configurazione di una comunità virtuale che sovverte la tirannia della lettera […] e insieme frantuma l’insopportabile peso di metafisica, razionalismo, umanesimo, ecc. Il mito e la nostalgia dell’oralità, della manifestazione diretta e non mediata della parola sembrano trovare nuovo appiglio nelle possibilità di trasmissione, registrazione, riproduzione, amplificazione della voce, sostenute per giunta dalle contaminazioni con le forme, i codici, i dati sensoriali più diversi messi in opera dalla multimedialità. C’è perfino chi si incanta per l’invasione degli “analfabeti” o dei “barbari” che il dominio della comunicazione mediatica comporta: sono molti a pensare, e ne sono ben lieti, che il tempo della letteratura sia finito» (Giulio Ferroni, La passion predominante cit., pp. 75-76).
I termini utilizzati qui da Ferroni potrebbero sembrare oggi eccessivamente tradizionalistici (o addirittura misoneistici e arretrati in taluni casi) ma è anche vero che l‘imbarazzo tutto “umanistico” del lettore professionale di fronte all’approssimazione e al narcisismo inaccettabile che invade i sentieri virtuali del web permane. Come leggere la poesia o i romanzi del passato nell’epoca di Internet? Come riuscire a ritrovare (e a far ritrovare ai più giovani) la passione per la poesia e per la lettura dei classici?
2. Una solitudine troppo rumorosa?
Quest’ultima è una delle domande che affannano la riflessione (peraltro pacata e spesso simpaticamente auto-ironica di Franco Brevini nel suo notevole Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari (Torino, Bollati Boringhieri, 2008).
Anche la strada scelta da Brevini per discorrere e argomentare sul destino della critica letteraria del futuro è quella della narrazione auto-biografica del presente e del rapporto tra chi cerca di comprenderlo e gli ostacoli che si frappongono davanti a questo sforzo che spesso risulta nullificato o almeno reso assai difficile dalla natura nuova emergente di esso. Anche qui il rapporto con la lingua e la sua evoluzione è determinante. Il critico narra, ad es., di un suo corso tenuto alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bergamo:
«A Bergamo ho tenuto un corso su Carlo Porta. Nonostante faticassero a capire il dialetto milanese di due secoli prima, gli studenti erano affascinati dal suo impaziente desiderio di far piazza pulita di tutti i cascami della tradizione letteraria. In una città come Milano, allora crocevia del rinnovamento culturale, l’autore della Ninetta del Verzee poteva farsi allegra beffa dei classicisti con i loro polverosi corredi mitologici, liquidandoli con sprezzo come papa fada (“pappa fatta”) o robba passada (“roba passata”). Nelle Sestin per el matrimoni del sur cont don Gabriell Verr aveva dichiarato senza mezzi termini: Romantegh come sont tutt quell che foo / sont condannaa a toeull foeura del mè coo (“Romantico come sono, tutto quello che faccio sono condannato a tirarlo fuori dalla mia testa)» (Franco Brevini, Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari cit., p. 20).
Brevini è, infatti, ben noto quale studioso di poesia dialettale e ad essa ha legato il proprio programma di ricerca letteraria. Facendo leva sul suo amore per questo segmento fondamentale della poesia italiana di sempre, cerca di rivitalizzare l’interesse per quell’ormai (apparentemente) morente mondo delle humanae litterae che è stato per lunghissimi anni il fondamento dell’insegnamento scolastico in Italia (e non solo). Ma i passaggi di civiltà – noterà più avanti – comportano sempre momenti di rovesciamento generale delle prospettive di attesa. Così è stato in passato, all’alba della modernità, così è certamente oggi. Il presente è fatto di attesa e di conferma dell’ “innovazione”(p. 20). Tale aspetto non si può eludere o dimenticare in nome del rispetto delle tradizioni invalse ma ormai consunte. Il “riconoscimento” nei valori che accendevano le menti anche in un passato non tanto remoto non avviene più. Annota Brevini:
«E’ come se anche gli ultimi baluardi della cultura cui siamo abituati ad attribuire questo nome siano saltati, sparendo dall’orizzonte degli adolescenti e dei giovani. Studiano con diligenza, le nuove generazioni, ma non scatta l’esperienza del riconoscimento. Se un tempo a dare forma alle inquietudini degli adolescenti che eravamo contribuivano anche i versi di Cesare Pavese o di Jacques Prévert, oggi non sembrano esserci che Vasco Rossi o le filastrocche cadenzate del rap e dell’hip hop. I poeti giacciono dimenticati e malinconici come paccottiglia crepuscolare nell’impolverato Parnaso dei programmi scolastici. Davvero, mi chiedo allora turbato, il posto dei grandi libri e dei grandi autori è stato occupato dalla vulgata dei media, l’unica, reale monocultura di riferimento dei miei studenti, il cibo che solum è loro?»
(Franco Brevini, Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari cit., p. 51).
La richiesta di un nuovo linguaggio, di un codice rinnovato di comunicazione linguistica, tuttavia, non è attribuibile soltanto alla stretta attualità del presente. Con intelligenza e precisione, la vicenda della poesia italiana del secondo Novecento viene seguita lungo le linee della storia della sua liberazione dalle pastoie di una lingua poetica non più adeguata al tempo nuovo che arrivava:
«Persino chi abbia seguito le vicende di un genere sdegnosamente rinchiuso nei suoi rituali come la poesia non può fare a meno di rilevare la svolta che interviene negli anni sessanta, in coincidenza con la tumultuosa seconda modernizzazione della società italiana. Si tratta di un evento quanto mai significativo, che testimonia l’impossibilità di proseguire sui vecchi binari e che fra le sue molteplici ricadute può vantare anche una risoluta modificazione della lingua impiegata dai poeti. Nel giro di pochi decenni ciò che restava dell’ordinato edificio dell’italiano letterario, già profondamente scosso all’inizio del Novecento dalle esperienze di Pascoli, di D’Annunzio e dei crepuscolari, venne definitivamente demolito. Nella lingua della poesia dilagarono lo standard e il parlato, che in precedenza erano serviti solo per saltuari innesti ironici o parodici»
(Franco Brevini, Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari cit., pp 117-118).
Gli esempi che Brevini pur brevemente esibisce sono, infatti, assai significativi di una stagione che coinvolse tutti, dai Novissimi agli ermetici sopravvissuti e coloro i quali senza voler essere né dalla parte degli uni né degli altri utilizzarono la poesia per mostrare spontaneamente la fine di un’epoca e l’inizio necessitato di un’altra:
«E così Nel magma (1963) di Luzi vede ricorrere formule discorsive ed espressioni tratte dalle cronache quotidiane, Gli strumenti umani (1965) di Sereni registra moltissimi tratti di parlato, Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1965) di Caproni introduce modi tipici della conversazione di ogni giorno, Satura (1971) di Montale compie un’ immersione tanto radicale e sarcastica nella lingua della comunicazione da apparire quasi un’abdicazione dalla poesia stessa, firmata da un Montale in qualche modo postumo a se stesso. Per non parlare della neoavangurdia…» (Franco Brevini, Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari cit., p. 118).
Uno dei suoi modelli di riferimento, infine, la straordinaria figura di poeta-intellettuale quale fu Franco Fortini gli suggerisce delle possibili conclusioni. Il tempo della poesia “classicistica” e “aristocratica” (nonostante l’impegno politico esibito nell’immediato succedersi delle vicende dell’attualità) di poeti come quest’ultimo può essere considerato ormai passato ma non per questo si può dire che sia finito il tempo della poesia. Certo la solitudine del poeta si accentua nonostante il clangore e il brusio della comunicazione nella rete. Brevini, alla fine del suo libro, azzarda una proposta che ha il sapore della profezia:
«Nei giorni scorsi mi è capitato di riprendere in mano il Convivio di Dante.[…] Ho riletto le pagine dove l’autore della Commedia intona un’appassionata difesa del volgare, il cui uso poteva rappresentare per gli intellettuali conservatori una gravissima macchia, ma che lui saluta invece come un sole nuovo chiamato a illuminare “coloro che sono in tenebre e in oscuritade”. Il tema è dunque un codice basso, non aulico e perciò dispregiato dai sapienti, quale strumento per far circolare la cultura fra un numero più ampio di persone. Non so se la svolta che stiamo vivendo sia confrontabile con quella di Dante…» (Franco Brevini, Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari cit. , p. 190).
In un bel libro del 2002 di Guido Mazzoni (Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea pubblicato a Milano da Marcos y Marcos), proprio a proposito di Fortini, Sereni e Montale) aveva proposto questa categoria della solitudine, a cavallo tra sociologia e critica letteraria, come possibile modello interpretativo di una stagione ormai trascorsa ma non certo dimenticata o cancellata.
«Se la poesia contemporanea attraversa una crisi irreversibile, è anche perché non riesce più a comunicare quell’idea dell’uomo e del mondo che, secondo la propria logica interna, sarebbe chiamata a comunicare. Così facendo, registra una condizione reale e dice alcune verità sul nostro tempo: che il poeta non ha più un mandato; che il nostro rapporto con la tradizione è necessariamente problematico; che in condizioni normali il nostro io non è più integro né plastico; che non possiamo più attribuire alle nostre esperienze soggettive un oggettivo valore universale, a meno di non regredire a stadi di vita psichica anteriori a quello occupato dalla coscienza desta, e dunque immediati e presociali»
(Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea cit., pp. 17-18).
Se i contemporanei sapranno accettare questa loro condizione o ribaltarla, ai critici non è dato sapere. L’importante è però che, dopo aver fatto il loro “esame di coscienza” (quale fece Renato Serra prima di morire sul Podgora per una pallottola austriaca), non mantengano anch’essi una posizione di sdegnoso isolamento rifugiandosi nei ricordi del passato per rimpiangerlo.
Compito della critica oggi è vivificare quel passato, non considerarlo (ancora) come irrimediabilmente perduto.
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[Giuseppe Panella, La solitudine del critico. Considerazioni su alcuni libri recenti e il destino della poesia, in "Italian Poetry Review", (IV), 2009, pp. 351-358]
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