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E ad Amburgo allora si svolge anche "La Spia: A Most Wanted Man", il romanzo di John Le Carré (titolo originale "Yssa Il Buono"), portato al cinema dal regista Anton Corbijn, con protagonista Philip Seymour Hoffman nel ruolo di leader di una squadra di spionaggio tedesca, coinvolta nel pedinamento di eventuali soggetti pericolosi con i quali interagisce pacificamente, cercando di intuirne intenzioni e, nel peggiore dei casi, disponibilità a collaborare. Questo mentre, contemporaneamente e in parallelo, lui stesso è chiamato in prima persona anche a gestire le pressioni diplomatiche inviate da altri esponenti mondiali - come per esempio l'America - che minano autonomia e pre-tattica, minacciando interventi più aggressivi in caso di tempistiche considerate eccessivamente lunghe.
Come deducibile, dunque, "La Spia: A Most Wanted Man" è un thriller politico ad ampio spettro, che si occupa non solo di mostrare le modalità di comportamento ed esecuzione di organizzazioni anti-terroristiche esistenti (seppur prive di identità), ma ha intenzione di metterne a conoscenza persino rapporti e contrasti ideologici con cui devono puntualmente relazionarsi, negoziando abilmente per mantenere sani e pacifici dei climi delicatissimi, senza ovviamente scombinare troppo quei piani d'azione già programmati. La pellicola di Corbijin affronta questo insieme di circostanze prendendo spunto da chi, prima di lui, ha riscritto il genere spy-story, prosciugandolo dell'azione alla "The Bourne Identity" e innaffiandolo di inquadrature lente e svolgimento statico, spesso da consumare in interni. Come fu per "Zero Dark Thrity" e per "La Talpa" (tratto sempre da un romanzo di Le Carré) quindi, anche in questo frangente le indagini e il terrorismo vengono combattute da fermi, componendo un ritmo ai minimi storici e innalzando tensione con dialoghi lunghissimi e scene silenziose. La partita di Hoffmann - bravissimo ad entrare nei panni della spia perfetta - si gioca dunque tra strette di mano e pacche sulle spalle, la maggior parte di queste poco affidabili, nonostante siano elargite a persone di fiducia, quelle da cui la parola ricevuta dovrebbe esser documento firmato su cui fare affidamento per mantenere saldo quello scopo comune di fare del mondo un posto migliore.
Si da il caso che Corbijin tuttavia non abbia dalla sua la stessa esperienza e dimestichezza dei suoi precursori, e che la sua narrazione anziché avvolgere e catturare, finisce per ingolfarsi e tenere a distanza. Le cose vanno meglio solo quando la camera punta Hoffmann, catturando la sua (ultima) interpretazione impeccabile, enorme e magistrale. Va a lui infatti il merito di un finale riuscitissimo e rabbioso, dove il suo volto e le sue urla riescono a trasmettere la negatività voluta e quasi a riscattare il blocco e l'insostenibilità di un intero film a rilento.
Un finale dove soprattutto la sua mancanza torna a farsi sentir grande, come se la sua scomparsa per un'attimo fosse stata cancellata e poi accaduta di nuovo.
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