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LA SPIA: recensione. L’ultimo Philip Seymour Hoffman è da vedere

Creato il 10 novembre 2014 da Luigilocatelli

La spia (A Most Wanted Man), un film di Anton Cobijn. Tratto dal romanzo Yssa il buono di John Le Carré. Con Philip Seymour Hoffman, Rachel MacAdams, Nina Hoss, Willem Dafoe, Daniel Brühl, Martin Wuttke.
mostwanted2Una spy-story livida e ambigua in puro stile Le Carré, in una Amburgo teatro delle ombre e di ogni doppiezza. A far proprio il film è Philip Seymour Hoffman alla sua ultima interpretazione, ed è evidente la sua sofferenza, che non è solo arte d’attore. Voto 6 e mezzo
mostwanted1Sì, certo, ci si chiederà se sia o meno un buon film, se sia o no all’altezza di La talpa, tratto come questo di John Le Carré, e di questo evidente modello di riferimento. Ma diciamola tutta, il vero motivo di interesse di A Most Wanted Man è che trattasi dell’ultimo set di Philip Seymour prima della morte. Della morte che sappiamo. Vedendolo, ed è in scena dalla prima all’ultima inquadratura o quasi, non puoi fare a meno di cercare di indovinare dalla sua faccia, dallo sguardo, dal suo corpo, dal come lo muove e si muove, da come cammina, gli eventuali segni di quello che di lì a poco sarebbe successo. Almeno, io non sono riuscito a sottrarmi, e chiamatelo pure guardonismo. Certo è facile dire e sentenziare con il senno e con gli occhi di poi, però davvero il povero Philip qui sembra come spento, affaticato, arrancante, se non proprio distrutto, rovinato. Faccia gonfia, pallida. Corpo assai robusto, anche di più di come l’abbiamo visto in altri film. Evidenti difficoltà a camminare speditamente. E come un sibilo, come un rantolo ad accompagnare la sua voce che, a posteriori, suona agghiacciante e allarmante. Si spiega forse con la sua sofferenza, il suo evidente stare male, un recitare a momenti come assente, un astrarsi dal film, pause come per riprendere fiato e forze, che lui sapientemente trasforma in tratti espressivi, in elementi della sua prestazione d’attore. Questo La spia è cosa sua, è lui, per il resto essendo un onestissimo, anche buonissimo a momenti, prodotto che però non ha, non potrà mai avere vita propria a prescindere da lui. Un film che esiste in funzione della sua presenza-assenza. Film postumo e già fantasmatico, plumbeo e livido e pure lugubre a momenti, per via anche di una di quelle storie di destini triturati dalla Storia di cui Le Carré è maestro e che stringono lo spettatore (e prima il lettore) in una dimensione di paranoia, minaccia, claustrofobia. Oltretutto siamo nella Germani più nordica e buia, in una Amburgo che fa da sfondo e insieme da specchio allo srotolarsi di quanto è raccontato. Protagonista un uomo dei servizi segreti tedeschi, il Günther Bachmann interpretato da PSH, un giusto che cerca per quanto può – e quel che può non è poco – di muoversi sul crinale che divide il bene dal male senza comnpromettere la propria integrità, salvando l’anima propria e la vita degli innocenti. La spia è questa sua lotta, cui PHS aderisce quasi fisicamente.
Un uomo lacero si aggira per Amburgo, finché non verrà soccorso da un immigrato turco e da sua madre che, impietositi, lo ospiteranno a casa loro. Scopriremo che Yssa, questo il suo nome, viene dalla Cecenia. Nato dallo stupro di una giovane donna da parte di un alto militare russo durante la repressione-normalizzazione a Grozny e dintorni, e poi cresciuto incapsulato nella cultura e religione materne. Nell’Islam. Perché è in Germania? Sta progettando un’azione terroristica? Un’avvocatessa impegnata sul fronte dei diritti umani si mette in contatto con lui, lo aiuto, per motivi che poi conosceremo, a incontrare un ambiguo banchiere. Intanto Günther Bachmann, responsabile dell’unità antiterrorismo, individua la sua presenza, lo scova, lo mette sotto controllo. Cercherà attraverso di lui di organizzare una rischiosa partita tesa a incastrare un rispettabile e agiato signore di religione islamica sospettato di foraggiare sotto copertura vari gruppi jihadisti in giro per il mondo. Nel complicato gioco si inseriscono una signora degli alti ranghi Cia e un responsabile dei servizi segreti di Berlino. Come nelle migliori spy story, non conosciamo davvero il movente dei vari attori della partita, tutti sono sospettati e sospettabili di doppio e triplo gioco. Chi sta ingannando chi? Chi sta usando chi? E per quali scopi? Unica traccia per noi spettatori è la lealtà di Günther, il suo essere un uomo giusto. Fino all’ultima scena, non così annunciato. Anton Corbijn, il fotografo ormai da qualche tempo passato alla cine-regia (suo il buonissimo e sottovalutato L’americano con George Clooney), gira adeguatamente questa storia piena di ombre e chiariscuri, algida e nebbiosa come la città che le fa da contenitore. Certo La spia non ha la forte impronta stilistica del precedente Le Carré-movie La talpa, ma non ne ha nemmeno i manierismi, è più diretto, meno artificioso e in qualche modo più onesto, più sinceramente interessato al fattore umano, alle vite dei suoi personaggi, ai loro destini. Non un grande film, ma un film non qualunque. Certo, da vedere soprattutto per Philip Seymour Hoffman, ma anche per le riflessioni che induce sull’Islam, sul terrorismo, sulle nostre paure più o meno giustificate. Ancora? Sì, ancora. E Le Carrè non smentisce nemmeno stavolta le sue simpatie per i dannati della terra. Ottimo gruppo di attori. Rachel MacAdams è l’avvocatessa, Willem Dafoe il banchiere dei segreti, Robin Wright, ormai adusa dopo House of Cards a muoversi nel palazzo, è la superagente Cia (però potevano pettinarla meglio, sant’Iddio). E poi Nina Hoss, oggi la vera diva del cinema tedesco (l’abbiamo vista in La scelta di Barbara, la vedremo nel molto atteso Phoenix, trionfatore a Toronto), signora dalla bellezza assai aristocratica e altera. Di quelle donne troppo belle che rischiano di non piacere alle donne, che molte donne amano odiare.


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