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È un’ultima apparizione in cui, allo stesso tempo, Philip Seymour Hoffman è divo e anti-divo, con quella sigaretta sempre accesa tra le dita come Humphrey Bogart, ma non bello come i divi di un tempo, anzi sformato nel fisico, ma non nella maestria con cui sapeva stare nel quadro filmico.
In uno spy thriller dove il pesce più grande mangia sempre il pesce più piccolo, nell’affollato acquario delle celebrità lui è riuscito a non farsi mangiare mai, anzi ad emergere dall’acqua. Non fa insomma la fine del suo bellissimo ultimo personaggio, Gunther Bachmann, che però si rifugia nei vizi dell’alcol e della solitudine, un po’ come fece lui al chiuso del suo appartamento newyorkese dove i fumi di un’overdose di droga lo hanno portato via a soli 46 anni. Anche in questo, nella giovane età di una morte prematura, è un (anti)divo.
Provando a dire qualcosa anche sul film di Anton Corbijn, La spia è una spy story atipica. Non c’è un colpo di pistola, non c’è un inseguimento, non c’è un morto. C’è però una grande sceneggiatura, di Andrew Bovell, capace di tenere sulle spine col solo potere della parola e di un montaggio che non perde mai terreno. Rispetto al cugino La talpa di Tomas Alfredson, anch’esso tratto dalla mirabile penna di John Le Carré, l’intreccio è meno intricato, l’attesa meno rarefatta, ma l’atmosfera livida, umida, notturna è la stessa. La spia non è un thriller che non fa saltare sulla sedia, ma ci fa mettere comodi comodi, quasi con fare intellettuale, alla ricerca, o quantomeno l’intuizione, di come andrà a finire questo intreccio di pesciolini, barracuda e pescecani. Günther Bachmann non riesce a rendere il mondo un posto più sicuro. Hoffman ha però senza dubbio reso il cinema un posto più bello.
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