Spiega la Fornero che la riforma del
mercato del lavoro è necessaria per «favorire l'occupazione di giovani e donne,
ridurre stabilmente il tasso di disoccupazione strutturale e creare più
produttivo il lavoro». A quale tipo di disoccupazione strutturale si riferisca
la ministra Fornero non lo so: in quella dichiarazione non è specificato. En
passant ci sarebbe da riflettere sui termini usati, visto che in macroeconomia
la disoccupazione strutturale (dovuta ad esempio a variazione della domanda, o
variazione di dei metodi di produzione di un’economia) è considerata una
disoccupazione di equilibrio. In sostanza sembra che la Fornero consideri la
disoccupazione attuale come una non coincidenza tra offerta e domanda di lavoro
su specifici mercati e non su altri (ad esempio per un eccesso di domanda di
lavoro nel settore dell’auto, ma non in quello dell’edilizia). Ma torniamo a
noi.
Sostiene quindi la ministra Fornero, che la riforma del mercato del lavoro serve a favorire l’occupazione. Intuitivamente è facile avere dei dubbi sul fatto che una maggiore facilità di licenziamento (vedi manomissione dell’articolo 18) ed una precarietà del lavoro aggravata (vedi abolizione della causale sui contratti a termine), non producono maggiore occupazione. Ma la lettura che dobbiamo fare è quella in senso liberista. Spiega Alberto Bagnai, professore di politica economica all’Università di Pescara, che «la letteratura economica fornisce una semplice spiegazione di quanto sta accadendo oggi in Italia». La spiegazione sarebbe data dalla relazione inversa tra crescita dei salari e tasso di disoccupazione, individuata da A.W. Phillips. Leggendo i motivi della riforma tenendo a mente la cosiddetta curva di Phillips (tema controverso tra gli economisti), Bagnai afferma che «in tutta evidenza, i fautori della riforma si aspettano che un innalzamento del tasso di disoccupazione moderi la crescita dei salari e quindi il tasso di inflazione. Ciò contribuirebbe a ristabilire la competitività di prezzo dei prodotti italiani e quindi a riequilibrare gli sbilanci esterni che sono alla radice della crisi dell’eurozona». In sostanza lo scopo inconfessato del governo sarebbe quello di sacrificare posti di lavoro sull’altare del contenimento dei prezzi, cioè del tasso di inflazione.
La domanda da porsi è ora se questo meccanismo possa funzionare. La risposta è no, e la spiegazione la fornisce molto chiaramente Emiliano Brancaccio. Spiega l’economista dell’Università del Sannio, che «gli attuali scompensi commerciali sarebbero almeno in parte da imputare a una divergenza tra i costi del lavoro per unità prodotta dei vari paesi dell’Unione». In particolare è da mettere in evidenza che dal 1999 ad oggi in Germania i salari sono cresciuti pochissimo rispetto alla produttività, per cui il costo unitario del lavoro si è ridotto e la competitività è aumentata rispetto agli altri paesi». Stando così le cose, è chiaro che una politica di moderazione salariale per rendere più competitivi i prodotti nazionali non può avere efficacia, visto che la deflazione salariale è una politica che, spiega Brancaccio, «non ha caratterizzato soltanto i paesi in deficit ma anche i paesi in surplus commerciale, a cominciare proprio dalla Germania». Una politica stupida come un cane che si morde la coda. Siamo quindi nel pieno di una spirale di impoverimento delle lavoratrici e dei lavoratori che con la riforma del lavoro si sta cercando di accelerare. Interrompere questo circolo vizioso è quanto mai necessario e urgente. Una proposta concreta la fornisce lo stesso Brancaccio, che è insieme di valenza economica e politica: lo standard retributivo europeo, che legando la crescita delle retribuzioni alla crescita della produttività in primo luogo e all’andamento delle bilance commerciali in seconda battuta, si pone l'obiettivo «di interrompere la caduta ormai trentennale della quota salari in Europa e di eliminare la tendenza recessiva che da essa consegue». Da ciò dovrebbe generarsi «una potenziale convergenza di obiettivi tra lavoratori appartenenti a paesi diversi». L’implicazione politica non è di poco conto: le vertenze del lavoro assumerebbero carattere europeo e si porrebbero le basi per un «concreto e non retorico, nuovo internazionalismo del lavoro».
La battaglia politica contro la scellerata riforma del lavoro del governo Monti dovrebbe arricchirsi di una discussione concreta su questo tema.




