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LA SPOSA GENTILE, di Lia Levi

Creato il 27 aprile 2010 da Letteratitudine

Un banchiere ebreo, sposa una contadina cristiana…
Questa stringatissima frase, riportata quasi come una notizia, potrebbe rappresentare  il “nocciolo fondante” del nuovo romanzo di Lia Levi: “La sposa gentile” (edizioni e/o, 2010).
Naturalmente c’è molto altro…

Siamo agli inizi del Novecento e Amos, giovane banchiere ebreo di una cittadina piemontese, avverte l’esigenza di mettere su una solida famiglia su cui investire la propria esistenza. I suoi parenti, soprattutto le donne della famiglia, lo indirizzano verso alcune giovani che farebbero al caso suo. Ma i sentimenti non possono essere pilotati. Così, quando Amos incontra la bella Teresa decide di amarla senza tener conto delle differenze sociali e dell’appartenenza a religioni diverse. Perché Teresa – e torniamo alla frase iniziale del post – è una contadina cristiana.
Può, però, una famiglia ebraica, rispettabile, bene in vista… consentire a un proprio figlio di condividere la vita con una “sposa gentile”?
Il termine «gentile» ha, nella fattispecie, un duplice significato: il primo fa riferimento alla docilità della giovane - alla sua capacità di adattamento alle circostanze della vita - ; il secondo, nell’accezione ebraica, indica qualcuno che «appartiene a un altro popolo» (derivazione dell’ebraico goy: «gente», «genti»).
Il termine «gentile», dunque, si «sposa» perfettamente con il personaggio Teresa, poiché la giovane contadina cristiana è dotata di una mitezza tale da indurla a “rinunciare” al proprio credo e ad abbracciare quello del suo uomo (proprio per evitare che questi subisca l’inevitabile ostracismo della comunità ebraica della famiglia di appartenenza). E nel farlo si allontanerà anche dai propri cari (Teresa non è solo cristiana: è anche una contadina… una ragazza dalle umili origini, dunque).
Ma fino a che punto è possibile scrollarsi di dosso le proprie origini? Fino a che punto la propria fede può essere addomesticata per assecondare le esigenze della persona con cui si è deciso di vivere?
Con la scrittura cristallina e suggestiva a cui ci ha abituati, Lia Levi tratteggia una storia famigliare che incrocia quella della prima parte del Novecento, rivelando alcune peculiarità del popolo ebraico e fermandosi alle soglie del 1938: l’anno delle leggi razziali fasciste.

Vorrei discutere con voi di questo nuovo libro di Lia Levi.

Ecco alcune domande, finalizzate ad avviare il dibattito…

Fino a che punto è possibile scrollarsi di dosso le proprie origini?

Fino a che punto la propria fede può essere addomesticata per assecondare le esigenze della persona con cui si è deciso di vivere? Ed è giusto farlo? È giusto rinunciare al proprio credo religioso (o metterlo da parte) per uniformarsi a quello dell’amato/a? E compiere tale rinuncia, è più un atto di debolezza o di coraggio?

E d’altra parte, l’appartenenza a religioni differenti può essere un ostacolo nello sviluppo del rapporto d’amore tra un uomo e una donna?

Quand’è che l’appartenenza a religioni differenti - in situazioni del genere - può essere occasione di crescita, anche collettiva?
O è solo causa di difficoltà?

L’appartenenza a “ceti sociali” diversi può essere ancora oggi causa di conflitti nella gestione di un rapporto amoroso? Oppure è un problema del tutto superato?

Il non sentirsi accettati dalla propria famiglia d’origine, è un “ostacolo” superabile o, viceversa, incide inevitabilmente nella vita di chi subisce tale situazione?

Di seguito, potrete leggere la bella recensione di Luigi La Rosa.

Ospite speciale del post: Zauberei (capirete perché). In coda, invece, troverete un video dove Lia Levi presenta il suo precedente romanzo, “L’amore mio non può” (e racconta qualcosa di lei e della sua vita).

Massimo Maugeri

Ne approfitto per segnalare che, giovedì 29 aprile, alle ore 17,30 - presso la libreria Cavallotto di Catania, sita in Corso Sicilia - Luigi La Rosa e io avremo il piacere di presentare il libro di Lia Levi protagonista di questo post. Parteciperà all’incontro, anche l’autrice. L’attrice Egle Doria leggerà alcuni brani del romanzo.

 


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Quella sposa “gentile” in cuore e in spirito
di Luigi La Rosa

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 Sempre più il nostro difficile tempo tradisce l’arte e la letteratura. Sempre più è difficile scovare tra le novità editoriali opere felici, degne di attenzione e interesse. E sempre più fuggiamo dalla lettura per rifugiarci in altro, dimenticandoci di noi stessi e del nostro spazio interiore. Eppure, ci sono eccezioni magnifiche, isole di straordinario splendore, dov’è possibile ritrovarsi, raccapezzarsi nel vasto mar del vuoto dilagante. E quando alcune di queste eccezioni vengono alla ribalta bisogna parlarne a gran voce, dando spazio al talento, alla grazia, all’efficacia creativa.
E’ il caso del nuovo splendido romanzo di Lia Levi, “La sposa gentile”, che i tipi delle Edizioni E/O (sua storica casa editrice) mandano in questi giorni in libreria, opera balzata in poche settimane tra gli indici delle classifiche dei più venduti.
Mi avvicino al libro di Lia Levi con la stessa curiosità suscitata in me da ogni sua nuova uscita: ho sempre apprezzato moltissimo questa scrittura piana, accarezzata da una solare ironia, attenta al particolare dei sentimenti e agli abissi dell’animo umano, ricca di colore metaforico senza tuttavia scadere in alcun punto nell’abuso della retorica e nel compiacimento dello stile. Una scrittura che rifugge dalle forzature, che nomina le cose col proprio nome - esatta, minuziosa, misurata, leggera secondo l’imprescindibile canone tanto caro ad Italo Calvino.
Fantastica l’epigrafe di Federico Garcìa Lorca in apertura, di quelle che non si dimenticano: “Per il tuo amore mi duole l’aria / il cuore / e il cappello”. Un proclama di dedizione che si stende come un’aura sul magnifico esordio del romanzo: “Quando l’anno 1900 arrivò trionfalmente a inaugurare il nuovo secolo fra luminarie e simboliche danze, Amos Segre si trovò a fare una solenne promessa a se stesso. Al compimento dei trent’anni, non un minuto dopo, avrebbe dovuto assolutamente vedere già realizzati due sogni fondamentali. Primo, una ricchezza solida e riconoscibile. Secondo, una moglie con cui dividere una dimora degna di tanta conquista.”
Proponimento in qualche misura epico, emblematico, che ci trascina già tenacemente dentro le pulsazioni emotive del racconto. La vicenda che Lia Levi ritrae con l’allegro brio di un minuetto mozartiano è profondamente legata alla volontà risoluta di questo giovane uomo, alla sua forza di resistere agli eventi avversi, agli urti capricciosi della fortuna, alle incomprensioni famigliari, alle imposizioni sottintese della comunità. Un giovane mosso da sogni necessari: la costruzione di una famiglia e l’esigenza assoluta di affermarsi davanti agli occhi del contesto di provenienza.
Tuttavia questo desiderio inoppugnabile sembra minacciato dalla medesima particolarità della sua scelta: Teresa, la ragazza di cui s’innamora, è contadina e “gentile”, tanto nei modi del cuore quanto rispetto alla religione ebraica del futuro marito. Amos si tramuta pertanto in puro sguardo, uno sguardo che cesella, che cerca la luce dorata dei dettagli, perché Teresa è bella, sicura di sé, e ferma quanto una rivelazione, un’epifania per gli occhi innamorati: “Prigionieri, prigionieri sono quei capelli che le forcine tengono così forzati… Le forcine sono le guardie di un paese nemico. Bisogna fare la guerra contro di loro. E’ lui è arrivato lì per questo, è solo questo il suo compito di cavaliere armato.”
Bisogna addentrarsi nel paese di lei, delle sue forme. Nel paese della sua anima misteriosa. Amos è sicuro di riuscirci. Amos vive per questo. Sebbene, l’amore per la florida contadina lo esilierà quasi certamente dalla sua famiglia e dalla stessa comunità nella quale è cresciuto e s’è fatto uomo. La sposa gentile si offre al lettore come una sinfonia gradevolissima degli affetti, una partitura piena di colpi di scena e di aneddoti vitali, che impenna sotto il fluire degli eventi, ma che accompagna con pacata scioltezza il lento, ammirevole evolversi del controverso amore della coppia. Il suo fuggire dai luoghi comuni delle convenzioni. Il sacrificio in nome dell’altro. La fatica di riedificare, passo passo, in una solitudine scelta, un’immagine di sé agli occhi perfidi del mondo.
Teresa comprende una verità fondamentale: che l’amore richiede delle scelte. E’ questa la sua toccante formazione alla maturità, questo apprendere le regole non scritte della vita e decidere di aderirvi in maniera responsabile, etica, consapevole. Per amore di Amos Teresa ritesse intorno a sé le algebre filiformi di un universo che non le appartiene, e che in parte ha sentito ostile. Accetta che i figli nati dall’unione col Segre portino il sigillo dell’antica religione ebraica. Accetta di adeguarsi a rituali estranei, che ridefiniscano tuttavia una presenza e un’identità all’interno dell’essere comunitario. Accetta che Amos senta di riconquistare il posto che gli spettava di diritto nell’ambito della sua famiglia, all’interno dello stesso contesto che sul principio l’aveva emarginato.
La narrazione si tramuta presto in una meravigliosa saga familiare, all’interno della quale uomini e donne si muovono alla ricerca di qualcosa: chi di un posto, di un riconoscimento, chi di un valore seppure effimero da salvaguardare al correre dei tempi. Lia Levi asseconda l’avanzare degli anni con magistrale perspicacia descrittiva: tra le pagine cresciamo insieme ai suoi personaggi, ci moltiplichiamo dietro le loro ombre, partecipiamo delle delusioni e delle rivalse che la fortuna di tanto in tanto dissemina sul laborioso cammino degli umani.
Sulla coralità sfumata dei tanti personaggi emerge, a tratti nitidi e vincenti, la figura di Teresa, vera grande protagonista del romanzo. L’impronta nella quale il suo perimetro è scolpito è forte, matura, responsabile: Teresa è una donna che sa scegliere, che sa portare fino in fondo le conseguenze del proprio coraggio, che non si piega davanti a niente e a nessuno, tranne che agli impeti della passione che ha animato e anima ancora la sua esistenza. E’ una creatura ricca di una sua intima luminosità, dotata di una fibra vincente, moderna sotto tutti i punti di vista. Impossibile non innamorarsene, come non aderire alla sua voglia di libertà, al suo bisogno di indipendenza e di riscatto.
La sposa gentile si legge in un soffio, e fugge via con la celerità degli attimi che tra le pagine si consumano in una danza inesorabile e vorticosa. Tutto fugge via per sempre: la vita dei personaggi, i loro amori, le loro storie, le loro inquietudini. Fuggono i tempi, le stagioni, la giovinezza e fugge il secolo passato, lasciando ricadere sul nuovo ipotesi e tradimenti. Ma fugge soprattutto la serenità che per un certo tempo sembrava aleggiare sui destini rappresentati, mentre si affaccia sull’orizzonte la nuvola nera di un’epoca di profonda afflizione: il racconto si chiude infatti sul 1938, anno delle Leggi Razziali, che la scrittrice rievoca per pennellati veloci, lasciandoci la sensazione di un’ulteriore apertura.
Incontro Lia Levi in un fredda mattina trasteverina. Sediamo a chiacchierare nel brusio già primaverile di un giorno di sole miracolosamente strappato a questo fitto inverno. I gabbiani stridono tra le fessure dei tetti. C’è la bella luce di Roma, intorno. Nelle parole dell’autrice mi sembra di percepire la stessa vibrante emozione dei suoi personaggi, di Amos, padre e marito amorevole, di Teresa, donna forte e innamorata, e di un mondo famigliare pieno di risonanze e di contraddizioni che costruisce e devasta se stesso, giorno per giorno, pagina dopo pagina, assumendo la forza di un vero e proprio affresco emotivo e sentimentale.

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