Primo lungometraggio di una regista molto particolare, film in corsa ai prossimi Academy Awards, storia dalla trama inconsueta, dedicata ad un mondo molto distante dalla nostra quotidianità e (come se non bastasse) che ha fatto aggiudicare la Coppa Volpi alla giovane protagonista all’ultimo festival di Venezia. Questo il biglietto da visita con cui si presenta al pubblico “la Sposa Promessa”, tra pochi giorni nei cinema.
Siamo a casa di Shira, figlia minore di una famiglia ebrea ortodossa di Tel Aviv, elettrizzata sposa promessa ad un giovane suo coetaneo, la cui innocenza viene spezzata in seguito alla morte prematura della sorella maggiore. Il sogno s’infrange il giorno in cui a Yochai, il cognato, viene proposto di sposare in seconde nozze una donna belga. La notizia è straziante perché separerebbe la famiglia dal nipote, unico vivo ricordo della defunta figlia. La razionalità, il senso pratico e l’amore per la famiglia prendono quindi il sopravvento nella mente della giovane creando inizialmente confusione e provocando nuovo dolore.
Storia apparentemente sospesa nel tempo grazie ad una inconsueta fotografia dai colori pastello, molto tenui, quasi ovattati, spesso sfumati, che rendono la realtà descritta magica e favoriscono la narrazione di una favola senza tempo, aiutata anche dalle scene spesso all’interno del medesimo salotto. Il racconto però è molto reale e legato al mondo chassidico. Nonostante Tel Aviv sia piuttosto vicina, le tradizioni che essa ospita non ci raggiungono e così pochi di noi conoscono la religione ebraica ed in particolar modo le regole delle comunità ortodosse.
L’opera ci presenta un nucleo familiare come molti, moderno ed allo stesso tempo legato al passato, per nulla intenzionato a rinunciare alle proprie regole secolari. Famiglia patriarcale si, ma in cui la donna è insostituibile consigliera e libera di decidere; comunità in cui il matrimonio è un passaggio obbligato, ma il cui compagno è suggerito (non imposto) alle figlie; e le cui emozioni dei suoi membri nulla hanno di diverso da quelle degli altri. Insomma, ci viene aperta una finestra su un curioso mix che pare soddisfare tutti.
Il film non si fregia di essere un manifesto religioso o di voler aprire un dialogo/confronto tra stili di vita diversi, narra un dolore universale, un dilemma comune e la debolezza tutta terrena degli uomini. E’ così che, come spesso capita, la storia riesce a comunicare con grande efficacia (forse molta di più di quella voluta) i drammi e i dilemmi che spesso ci troviamo ad affrontare quando dobbiamo scegliere se seguire la razionalità o il nostro cuore. Voler alleviare il dolore di coloro a cui vogliamo bene ci può far propendere per la scelta migliore, la più logica, che però non coincide con i nostri sogni, le speranze e ci fa deviare dalla via che stavamo percorrendo. E questo a prescindere dalla latitudine, dalle credenze o dall’età.
Voto: dal 6 al 7. Il ritmo tra la prima e la seconda parte cambia e a tratti cede, ma il pathos che comunica il bravissimo Yiftach Klein (già apprezzato in Policeman lo scorso anno a Locarno), la fotografia e la prospettiva inconsueta attraverso cui viene narrata la reazione ad una perdita, ci inducono a consigliare la pellicola.