La Sposa Promessa: un Vuoto a Rendere

Creato il 03 dicembre 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Una meritatissima Coppa Volpi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia per la giovane Hadas Yaron, un’attrice che recita con gli occhi. Si potrebbe quasi dire che si basa sul senso della vista La sposa promessa, la pellicola dell’esordiente Rama Burshtein, che dello sguardo ne fa la sua particolarità. Nessun virtuosismo nella ripresa, la macchina è perlopiù immobile, tanti primi piani concentrati sui giganteschi e innocenti occhi cerulei della protagonista Shira. Sono occhi sgranati sul suo mondo che per noi spettatori italiani è quasi impossibile comprendere. Impossibile immaginare che storie simili possano essere la norma per molte comunità, ma sono storie talmente vere che dopo novanta minuti ti lasciano pieno di interrogativi. Comincia come un qualsiasi film romantico, una ragazza osserva furtivamente tra gli scaffali di un supermercato un ragazzo dalla tipica “pettinatura e abbigliamento” da ebreo ortodosso, una cotta adolescenziale quasi dolcissima. Si rimane turbati quando diventa chiaro che il ragazzo in questione è un perfetto sconosciuto e sono in corso le trattative perché diventi il suo promesso sposo. L’emozione di Shira è però presto stroncata dal dolore per la morte di parto della sorella che lascia un neonato orfano e un marito che deve presto risposarsi perché “è giusto che sia così”. Ambientato nella comunità ebrea ortodossa, in una città non del tutto definita (che poi è Tel Aviv e la comunità è quella ebraica dei Chassidim), il film è principalmente girato in interni, in luoghi dove le donne e gli uomini stanno in ambienti separati soprattutto durante riti e cerimonie, in una modalità che dà l’impressione che gli uomini provino un forsennato divertimento nel bere e nel cantare mentre le donne, nella stanza accanto, li spiano con sguardi tristi in una sorta di sottomissione mistica.

Attraverso dialoghi minimi, ingessati e telefonate criptiche, la trama si concentra sulla possibilità di far sposare la giovane Shira con il cognato in modo tale da dare una madre al bambino, non allontanarlo dalla famiglia materna e “fornire” una nuova moglie al neo-vedovo. Shira dovrebbe, insomma, su suggerimento della famiglia riempire il vuoto (il “FILL the VOID” del titolo) lasciato dalla sorella, seppur contro la sua volontà (anche se in qualche sequenza pare essere tenuta in considerazione). Una decisione comunque sofferta che lacera la protagonista dall’interno – ma questo lo intuiamo noi – perché dall’esterno è importante non far trasparire nulla per essere rispettosi delle regole e delle tradizioni. Il dolore, l’elaborazione del lutto vengono vissuti all’interno di schemi stabiliti, di frasi ripetute, di preghiere cantate. I “vuoti da riempire” diventano così tanti: quello della morte, del cuore, del rifiuto e della scelta.

L’occhio della regista è attento e distaccato, pronto a cogliere ogni rossore, ogni minimo movimento che possa turbare il bel viso pulito della protagonista. Nessuna complicità, nessuna compassione, nessuna pateticità, anzi una cronaca quasi asettica di una realtà a cui la regista stessa appartiene, e della quale senza pregiudizi, stereotipi o cliché ci permette per la prima volta di essere spettatori privilegiati consentendoci di sbirciare all’interno di una comunità che rappresenta quasi un mistero. Forse è lei la prima a intuire che è la via giusta per far conoscere ad “altri” pubblici “altri” mondi e altre realtà dove l’individuo è parte integrante di una comunità coesa. Comincia e finisce allo stesso modo il film, con un rossore che solca le guance della fresca protagonista che è entrata nell’età adulta con un moto “dondolante” (caratteristica recitativa abbastanza ripetuta), una remissività che lascia l’amaro in bocca invitandoci a pensare quanto possa essere poco rilevante il libero arbitrio in molti contesti sociali soprattutto in presenza di una forte pressione religiosa.


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