Articolo di
Alberto Alesina pubblicato sul Corriere della sera il 22 maggio 2013
Un anno e mezzo fa l’ex ministro Elsa Fornero diceva agli italiani che avrebbero dovuto lavorare più a lungo: anche fino a 67 anni. Oggi il ministro Enrico Giovannini spiega loro che debbono lasciare l’impiego prima, per fare spazio ai giovani attraverso quella che viene chiamata «staffetta generazionale». Vale a dire, un dipendente accetta di lavorare meno ore, con meno stipendio o di andare in pensione con una qualche penalizzazione, purché la sua azienda assuma un giovane.
Giustamente credo che gli italiani siano un po’ confusi. In un Paese che
cresce, i posti di lavoro non sono fissi ma aumentano, quindi ci sarebbe posto
per tutti, giovani e anziani. In un Paese come il nostro, poi, nel quale la
vita media si sta allungando, sarebbe assolutamente necessario che gli anziani
lavorassero più a lungo, altrimenti il carico fiscale per chi ha un impiego si
alza molto proprio per sostenere chi un lavoro non ce l’ha più.
Ma se il Paese non cresce? Ovvero non crea posti di lavoro? I giovani troveranno ancora meno occupazione. Per di più, alte tasse e rigidità contrattuali all’ingresso sul mercato del lavoro scoraggiano assunzioni da parte delle imprese. Il carico fiscale inoltre riduce la crescita creando un circolo vizioso: sempre meno lavoro e sempre più persone che non essendo impiegate necessitano del sostegno di chi invece un’occupazione ce l’ha.
Il mancato sviluppo fa sì che le ore lavorate non aumentino, restino fisse. Redistribuirle fra giovani e anziani, come prevederebbe la «staffetta generazionale», non aiuta certo nell’aumentare il reddito degli italiani. Semplicemente lo redistribuisce tra padri e madri, figli e figlie. Posto poi che la «staffetta» funzioni, la disoccupazione giovanile si ridurrebbe sì, ma in modo fittizio: non creando più lavoro quanto redistribuendo quello già esistente tra una generazione e l’altra. Una stessa torta, il Prodotto interno lordo, diviso in parti diverse senza però che questo dia alcun contributo alla crescita.
Ma allora a che serve questa redistribuzione tra generazioni? Qualche effetto
indiretto potrebbe averlo. Primo: più a lungo un giovane rimane escluso dalla
forza lavoro meno diventa «impiegabile» dalle imprese e quindi scoraggiato. La
«staffetta» potrebbe per questo aiutare a ridurre il tempo di attesa per
l’impiego. Secondo: si potrebbe rendere figli e figlie meno legati al reddito
di padri, madri e alla famiglia, quindi più mobili, facilitando il loro
inserimento nel mondo del lavoro anche quando questo richiede un cambio di
città o luogo di vita.
Non sono chiarissime le conseguenze sulle imprese e i loro costi. Da un lato un
giovane all’inizio della carriera ha un salario più basso, ma ci sarebbero
costi legati all’inserimento del giovane al lavoro. Il saldo, positivo o
negativo, dipenderebbe comunque da quanto meno si pagano gli anziani che
passano al part time.
Insomma: la staffetta in sé e per sé non aiuterà la crescita. Anzi, sembra quasi un triste riconoscimento che l’unico modo per impiegare i giovani è chiedere ai genitori di scansarsi dal loro lavoro, cosa che suona come un’ammissione di incapacità a far crescere le ore di lavoro totali. Quindi la si venda per quello che è: una misura un po’ disperata per cercare di aiutare una generazione in grave difficoltà in un modo che però non aiuta ad attaccare alla radice i problemi di un Paese fermo da due decenni.