Magazine Cultura
Come raccontavo in Perché non lo facciamo per la strada?, nei miei giorni di liceale Bowie è stato il mio primo riferimento musicali (con gli Stones e Lou Reed). Imitando David mi ero pettinato i capelli all'indietro, e canzoni come Space Oddity, Jean Genie, Rebel Rebel erano la mia sigla.
Nonostante fossero i giorni di gloria del rock, era "solo rock'n'roll". Per la mia generazione i dischi furono la colonna sonora della propria vita e la (contro)cultura, ma rimanevano comunque dei dischi. Oggi, che la musica è diventata una merce per carbonari, è in atto un processo di mitizzazione in cui poco mi trovo. Quando si scrive di Dylan, Stones, Lou Reed, Who o chi volete voi, persino gregari come David Gilmour, pare ci si riferisca ad Omero o Michelangelo, il che tende un po' ad appiattire ogni valutazione critica. Bene, la musica rock mi è necessaria per vivere come l'acqua e l'ossigeno, ma restano comunque canzoni.
Bowie si era eclissato dalle scene alla fine del millennio. Non era stato un addio plateale, come ai tempi di Ziggy Stardust, ma una graduale perdita di interesse per i suoi lavori, che non erano proprio male, ma avevano perso definitivamente la capacità di pesare sulla scena.
Ragion per cui era stata una sorpresa assoluta , in giorni di carestia, il singolo uscito in occasione del suo compleanno (mi pare fossero sessantotto, perdonatemi se non ho voglia di verificare), anche se a dire il vero la canzone, Where Are We Now, non riusciva a rendere la forza di quello che sarebbe seguito. Perché se è sacrosanta la regola che ogni artista è creativo per una decade (e gli anni di Bowie furono, ovviamente, i settanta), il doppio album del 2013, The Next Day, si sarebbe rivelato uno dei momenti più a fuoco della sua discografia. Una sorta di ricapitolazione definitiva sul suono berlinese di Low ed Heroes.
Pur non rilasciando interviste, ai tempi se ne era uscito con un bel video, The Stars Are Out Tonight, quasi un cortometraggio, che era una specie di outing sulla storia; una coppia di artisti ritirati a vita privata si industriano di vivere come persone "normali" (li si vede intenti a fare la spesa al supermercato), ma il loro destino di star, di stelle, li reclama, dall'esterno (i fan) e dall'interno (la propria fantasia). Insomma: un ritorno dettato dall'inevitabile destino.
Quella della stella è un chiodo fisso del Bowie fino dagli esordi. Dalla fantascienza di Space Oddity, il suo primo successo, a titolo ricorrenti come The Supermen, Life On Mars?, fino a Ziggy Stardust, Lady Stardust, Starman, Star, su su fino a quel The Stars Are Out Tonight del 2013.
Quando Bowie si guarda allo specchio, vede una stella.
Ed è quello che racconta, ovviamente, in ✮ Blackstar, la stella nera. Già lo scorso anno se ne era uscito con un pezzo spiazzante, Sue, un pastiche in stile jazz postmoderno che mischia suono contemporaneo e big band da film noir degli anni cinquanta, registrato a New York appunto con una big band jazz, la Maria Schneider Orchestra.
Con piccolo combo di jazz contemporaneo, un gruppo di giovani talenti fra lounge e avanguardia, ha registrato il nuovo album, ✮ Blackstar appunto, che uscirà per il 70esimo compleanno del musicista, il giorno 8 gennaio del 2016. L'anteprima è spiazzante, ma non lontano dalle atmosfere dark jazz di Sue: un singolo (un 45 giri avremmo detto ai tempi buoni) che sfiora la lunghezza di 10 minuti (sarebbero stati addirittura di più, ma motivi tecnici di Apple iTunes lo hanno accorciato), accompagnato da un video fantascientifico, che si apre con il Major Tom degli esordi.
Il brano è volutamente non rock; se The Next Day era un ritorno alla grande, ✮ Blackstar è una pagina bianca. Non un nuovo inizio, perché la storia della stella nera sa un po' di testamento, ma di certo è una nuova avventura musicale. Nessuno pretende di paragonare il nuovo singolo alla freschezza di quelli dei giorni di gloria. Nessuno è fresco a settant'anni. Ma la musica è intrigante, affascinante, evocativa eppure decisamente nuova. Cinematografica, hollywoodiana, ma anche decisamente britannica. Melodica, dissonante, romantica. C'è persino un tocco del jazz non jazz britannico di scuola Canterbury. E il suo ascolto mi ha fatto estrarre dagli scaffali i recenti dischi dei Van Der Graaf Generator (un vitale gruppo art rock condannato ad essere ignorato in perpetuo dai media).
La giusta prospettiva della canzone sarà offerta dal resto dell'album. Ma è già vero che Bowie si è dimostrato un camaleonte dotato delle feline sette vite anche quando nessuno lo pretendeva o se lo aspettava. Brucio di impazienza per il disco completo. Che si annuncia il primo vero Long Playing di un secolo dove gli album sembrano essere tornati ad essere semplici raccolte di canzoni.
It's only rock'n'roll but I like it. Anzi, non lo è più rock'n'roll. Bowie testimonia la fine del rock. It's only music (but I like it).