La stirpe dei Maroniti/3 - (da un'inchiesta de l'Espresso)
LA GRANDE NEMESI SUDISTA - Bobo, il capo dei barbari sognanti contro la «meridionalizzazione della Lega» ha compiuto la sua nemesi: ora c'è uno stuolo di sudisti al suo fianco. Non solo la campana Votino: al centro dei giochi spicca l'avvocato di origini calabresi Domenico Aiello, nel duplice ruolo di difensore di Maroni per il pasticcio delle nomine delle fedelissime e di membro del cda di Expo. Dove l'ha imposto proprio il governatore, passando come una ruspa sopra a ogni questione di opportunità: Expo infatti è formalmente la vittima delle presunte pressioni esercitate dal numero uno del Pirellone. La stessa disinvoltura con cui ha insediato Gibelli, anche lui indagato nell'affaire delle due favorite, alla presidenza delle Ferrovie Nord, rimpiazzando Norberto Achille, travolto da uno scandalo di rimborsi folli.
Piccoli intrecci: Achille aveva assegnato una consulenza proprio a Aiello. L'esordio del legale calabrese avviene con l'indagine Mythos. Siamo nel 2010 e Bobo si trova sotto accusa per una consulenza "a voce" da 60 mila euro. La Votino presenta Aiello a Bobo. E dopo l'archiviazione, per l'avvocato è un crescendo di incarichi regionali: parte civile nel processo per Maugeri, poi la difesa della Pedemontana Lombarda. Non è l'unico professionista della casa a fare strada. Carmine Pallino, commercialista e amico di Bobo, venne chiamato nel 2012 per tagliare le spese di gestione del Carroccio, ramazzando via i dipendenti della storica sede di via Bellerio. Prima è stato consulente per il dicastero del Welfare, Inail e Croce Rossa con l'imprimatur dell'allora ministro. Poi una raffica di nomine regionali: revisore dell'agenzia per il marketing territoriale Promos e nel consiglio di vigilanza di Aler, l'azienda per l'edilizia popolare con un buco da 80 milioni. Infine la holding delle infrastrutture Asam e un mese fa sindaco della Fiera di Milano.
CON IL SACRO MONTE DI VARESE NEL CUORE - Nel dossier-vendetta dell'ex tesoriere Francesco Belsito, Bobo veniva accusato di favorire i suoi amici, «piazzati dal moralizzatore della nuova Lega in Asl e ministeri senza averne alcun titolo». E in effetti le promozioni non sono mancate. L'ultimo arrivato è Giuseppe Bonomi: segretario generale di Palazzo Lombardia, con poteri assoluti sulla macchina regionale. Bonomi da Varese è arrivato prima in Parlamento e poi ha scalato consigli e cariche da Sea, la società di gestione degli aeroporti di Milano, ad Alitalia.
Della stessa città natia anche il presidente della Commissione Sanità Fabio Rizzi e l'assessore alla famiglia Maria Cristina Cantù, amica personale di Bobo. E poi Rosella Petrali, braccio destro della Cantù e membro del consiglio di gestione di Infrastrutture Lombarde. L'unico milanese è il Richelieu del presidente, l'onnipresente Massimo Garavaglia, assessore all'economia ed ex senatore leghista: di fatto, il dominus del miliardario bilancio regionale. Il localismo al potere è rappresentato ancora da Carlo Passera ex dirigente del comune di Varese approdato nel cda dell'agenzia regionale per l'ambiente. In Finlombarda, la finanziaria del Pirellone, c'è il commercialista Ignazio Parrinello, studio nel centro del capoluogo prealpino. Nella società regionale di e-government Lombardia Informatica la poltrona più alta è toccata a Davide Rovera, ex direttore di una società di antifurti.
Il cerchio magico è anche una band: Giovanni Daverio in arte Johnny e Giuseppe Rossi detto Gegè. Sono due dei tredici musicisti del «Distretto 51», dove Bobo suona l'organo dagli anni Ottanta. Daverio è stato direttore generale della Asl locale e da due anni è a capo dell'assessorato alla famiglia. Rossi è invece alla testa del polo ospedaliero di Lodi, dopo aver guidato Lecco. Un altro della band è Ivan Caico, sax tenore e baritono, primario di cardiologia a Gallarate. Infine la vocalist Simona Paudice, coadiutore amministrativo all'ospedale di Treviglio. Ma tutte le strade portano a Varese. Maroni ha detto di volerne altri duecento chilometri. E per vigilare sulle opere, ecco indicato alla presidenza di Infrastrutture Lombarde Paolo Besozzi, ingegnere varesotto. Leghista da sempre e storico amico del governatore, adesso è diventato la pedina fondamentale dello scacchiere federale, perché controlla un portafoglio di oltre 10 miliardi, dagli ospedali alle autostrade.
COM'E' CARO IL SUO MIGRANTE! - A Pontida ha tuonato contro i "clandestini". Ma da ministro inventò il grande affare dei Cie, facendo operazioni per quasi tre miliardi di euro (di Francesca Sironi)
Corsa alle grida sul palco di Pontida, il 21 giugno. Prima del comizio di Matteo Salvini e dei selfie coi bimbi padani, prende il microfono Roberto Maroni. Niente maglietta-ruspa per lui: più formale, indossa giacca scura e fazzoletto verde nel taschino. «Se c'è qualcuno che negli ultimi decenni ha avuto sempre ragione», tuona parlando di immigrazione, «questo qualcuno è la Lega Nord!». Urla e applausi dalla folla. «Vogliono dare ai Rom le case popolari?», continua: «Dovranno passare sul mio corpo!». Giubilo del pubblico. Ma BoboCop, il "ministro di polizia", come lo definì Giorgio Bocca in un affilato ritratto su "l'Espresso", ha la memoria corta. Perché negli "ultimi decenni" è stato proprio lui ad avere un ruolo decisivo sui migranti, innescando sprechi di cui ancora adesso il paese paga le conseguenze. Dal 2008 al 2011, da capo dell'Interno, ha speso due miliardi e 868 milioni di euro per l'accoglienza dei richiedenti asilo, i rimpatri dei clandestini e gli insediamenti rom. Lasciando quale eredità? Centri d'identificazione ed espulsione costati decine di milioni e abbandonati tra le proteste; respingimenti di massa sanzionati dalla Corte di giustizia; campi nomadi su cui ha lucrato anche Mafia Capitale; il buco nero di Mineo, in Sicilia; e un susseguirsi di emergenze e decreti che non hanno permesso all'Italia di sviluppare un sistema stabile per far fronte alle ondate di sbarchi. Così, mentre l'attuale governatore era già impegnato a privilegiare la sua Regione e la sua città, l'immigrazione diventava un vortice di interessi. A beneficio di pochi.
Molto danaro, nessuna trasparenza - Nella primavera del 2008 Silvio Berlusconi andava formando il suo quarto governo. Umberto Bossi, allora padrone della Lega Nord, assicurava: «Certo che Maroni diventerà ministro dell'Interno. E chi se no? Chi è che manda via gli immigrati?». Il varesino conquistò la poltrona e iniziò subito a promettere guerra ai clandestini. Ma piuttosto che mandarli via, iniziò trattenendoli più a lungo: estese infatti la detenzione dentro i "Centri di identificazione ed espulsione" (Cie) da sei a 18 mesi. Più di un anno per capire la nazionalità di uno straniero e quindi rimandarlo a casa, pagando nel frattempo dai 40 agli 80 euro al giorno ai gestori, fino al doppio delle tariffe attuali. Fatto questo, Bobo proclamò che avrebbe costruito altre dieci "carceri" per irregolari, oltre alle 10 già esistenti. «Ogni Regione avrà la sua», annunciava. Ma non ne aprì neanche una: il capo dell'Immigrazione Mario Morcone non trovò Comuni disposti ad ospitarle. Intanto i Cie continuavano a bruciare, incendiati dall'esasperazione dei detenuti in rivolta: solo quello di Milano è stato messo a fuoco 14 volte in tre anni. Per ristrutturare quei centri il ministro leghista arrivò a stanziare (e poi spendere, nel 2011) oltre 150 milioni di euro. Affare ghiotto, trasparenza zero: i contratti con le imprese sono segretati per motivi di sicurezza. Vanno poi aggiunti 76 milioni di euro spesi per le operazioni contro i clandestini (fra cui gli accordi con la Libia per i quali l'Italia è stata condannata dalla Corte europea per i diritti dell'uomo), i finanziamenti europei e i fondi impegnati nelle gestioni ordinarie. Ma tutto questo impegno politico e finanziario non sembra aver raggiunto il suo scopo: i respinti sono rimasti meno della metà degli irregolari denunciati.
-3) (Continua)
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