La storia d’Italia nella mortalità infantile

Creato il 10 febbraio 2014 da Informasalus @informasalus
CATEGORIE: Salute

Quella ricostruibile dai dati sulla mortalità infantile sembra la storia di un progresso. Ma è davvero così?

Ho recentemente incontrato il Dr. Eugenio Serravalle, pediatra Specializzato in Pediatria Preventiva e Puericultura e Patologia Neonatale, che mi ha fatto riflettere su un argomento che gli ho chiesto di mettere per iscritto, in modo che fosse oggetto di riflessione per altri. (RG)
Per dimostrare l’ingresso di un Paese nella piena modernità, gli indicatori economici non sono tutto: quelli socio-sanitari sono altrettanto significativi, se non di più. Infatti, per quanto notevole possa essere la crescita del Pil di certi Paesi emergenti, la carenza di norme in materia di tutela della salute determina una maggior frequenza di patologie legate a tassi esorbitanti di inquinamento atmosferico nelle città o all’uso indiscriminato di pesticidi nelle campagne. Perciò, crescita economica e qualità delle condizioni di vita non è detto che coincidano.
La mortalità dei bambini sotto i 5 anni di vita è un’importante misura del benessere demografico di un Paese e uno dei più significativi indicatori sociali: permette, infatti, di correlare la mortalità con i vari momenti dello sviluppo di una popolazione e quindi con le sue condizioni di vita.
Le serie storiche dell’Istat delineano tra il 1887 e il 1907 un ritardo di vent’anni del nostro Paese nel raggiungere i tassi di mortalità di Francia e Svezia. Tale ritardo è l’indice più evidente del sotto-sviluppo in cui versano ancora i paesi di campagna percorsi dalle malattie tipiche della miseria e della malnutrizione (la malaria nel Sud e la pellagra nel Nord) e i quartieri popolari delle città, flagellati dal colera e dalla tubercolosi per le pessime condizioni igienico-sanitarie. Carenti sono infrastrutture quali il sistema di fognature, la fornitura di acqua potabile o la costruzione di ospedali pediatrici.
Nel 1895, con un tasso di mortalità di 326 bambini morti ogni 1000 nati vivi, il 65% muore per malattie infettive e specialmente gastroenteriti, febbri tifoidi e paratifoidi (26%), bronchiti e polmoniti (21%).
Tra la fine dell’Ottocento e il 1931, il tasso di mortalità si dimezza arrivando a 170 morti ogni 1.000 nati vivi. Mentre la difterite arriva quasi a scomparire, nonostante il vaccino sia stato introdotto solo nel 1939, e scarlattina, pertosse, morbillo e malaria decrescano in modo consistente, rimane forte, pur diminuendo, l’impatto delle gastroenteriti. Solo nel trentennio successivo, grazie all’ulteriore miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie, la variazione dei regimi alimentari e i nuovi metodi di profilassi e cura della malattia, riduzione (15%). Nel trentennio successivo il tasso di mortalità si riduce di un ulteriore 72% (47 morti ogni 1.000 nati vivi), con il quasi azzeramento di pertosse e morbillo a partire dal 1961, nonostante il vaccino contro la pertosse (non obbligatorio) sia stato praticato con ampie coperture solo dopo il 2000 e il morbillo abbia tuttora una copertura vaccinale inferiore al 90%.
Oggi la mortalità è scesa di un altro 91% (3,9 morti ogni per 1.000 nati vivi) ed è quasi interamente dovuta a malformazioni congenite e condizioni di origine perinatale (95%).
Nonostante i meriti attribuibili alle vaccinazioni, forse esse non avrebbero potuto avere un impatto altrettanto efficace sulle condizioni di salute della popolazione senza il parallelo miglioramento delle condizioni di vita, della quantità e della qualità dell’alimentazione, delle situazioni abitative, delle misure di igiene sia pubblica che individuale, in una parola senza l’affermarsi dei tratti più caratteristici dello sviluppo che includono anche il grado di consapevolezza e di informazione della popolazione sulle misure di prevenzione quotidiana. Del resto, patologie come la peste o la tubercolosi sono state vinte solo grazie ai cambiamenti delle condizioni materiali di vita ed agli antibiotici, non ai vaccini.
Nonostante un quadro tanto mutato, abbiamo assistito di recente ad una crescita esponenziale delle vaccinazioni praticate sui bambini, ad intervalli molto ravvicinati. Nei primi 15 mesi di vita un bambino italiano riceve 3 iniezioni di esavalente, 3 di pneumococco, 2 di rotavirus, 1 di meningococco, 1 di morbillo, parotite, rosolia, varicella, ed eventualmente un vaccino contro l’influenza. Tra prima immunizzazione e richiami si arriva a 29 iniezioni che costituiscono altrettante stimolazioni artificiali del sistema immunitario. Un calendario vaccinale siffatto presuppone un quadro di allarme sociale, non quello indicato dalle serie storiche appena richiamate. Esso è sintomo di un estremismo vaccinale che, non trovando un fondamento né nel quadro epidemiologico, né in quello medico relativo al funzionamento dell’apparato immunitario del bambino, deve trovarlo, per forza di cose, in altri ambiti, estranei alla sanità.
In questa evoluzione, un’azione importante è stata svolta proprio dal Governo centrale nel periodo 2000-2005 con una combinazione di misure finanziarie e sanitarie culminate nel varo del Piano Nazionale Vaccini 2005-2007.
Sembra cioè che, a quella ricostruibile attraverso i dati della mortalità infantile e che è la storia di un progresso, si stia affiancando un’altra storia, che segna la crescente colonizzazione della sanità pubblica da parte di una concezione centrata sull’intervento farmacologico a tutti i costi: più il quadro epidemiologico migliora e più il programma vaccinale si accresce di ulteriori interventi. Verrebbe da pensare che, in sostanza, ora ci si trovi di fronte alla storia di un regresso: quello della medicina di fronte alla civiltà consumistica e affaristica del farmaco.


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