Col tempo, mi duole dirlo, sto vagamente andando a perdere la passione per gli anime e i fumetti. Forse perdere è un termine un poco eccessivo, perché comunque ne guardo e leggo ancora, ma diciamo che lo faccio in una maniera più ponderata rispetto al passato. Se una volta infatti, soprattutto in quel buio periodo che è stato la mia adolescenza, passavo così i miei pomeriggi (e dato che leggevo anche molti romanzi, ascoltavo musica, suonavo, studiavo, disegnavo e mi sparavo almeno tre film a settimana, mi chiedo dove minchia trovassi il tempo per vivere) adesso centellino le visioni. Una volta guardavo di tutto, adesso guardo meno, ma guardo meglio. Perché la produzione di anime è davvero spropositata e cercare qualcosa di meritevole in certi generi (mi rivolgo soprattutto allo shonen), quelli destinati a un pubblico più ampio, diventa sempre più arduo. Restano però i grandi nomi, i punti di riferimento che sono sempre un sinonimo di garanzia e che, a differenza di certi dinosauri nostrani, sempre ancorati sugli stessi schemi di trent'anni prima, sanno rinnovarsi e accendere un nuovo interesse su quello che vogliono dire. E a quanto pare lo sa fare lo Studio Ghibli, il celebre studio d'animazione reso ancora più celebre dal grandissimo Hayao Miyazaki grazie ad opere come Princess Mononoke, La città incantata o Il castello errante di Howl. Questo film doveva ancora uscire e già tutti lo additavano come capolavoro, quindi fidatevi delle garanzie che un simile studio sa dare. Peccato però che nei cinema italiani lo abbiano distribuito solo per tre giorni, gli stessi in cui la sera lavoravo come custode. Che vi devo dire, la vita fa schifo per tutti.
Un giorno di primavera un anziano tagliatore di bambù trova nel fusto di una pianta una piccolissima bambina avvolta dalla luce. Convinto che sia un dono degli dei, il vecchio la porta a casa, e subito accadono strane cose: la bambina inizia a crescere a vista d'occhio, il seno sterile della moglie si riempie di latte e oro e vesti compaiono dal nulla. Il vecchio si convince che gli dei vogliono che lui dia alla bambina, da lui battezzata Principessa, una vita regale, quindi va in città per comprarle un titolo. Ma sarà davvero la scelta giusta?
Isao Takahata, il regista e sceneggiatore di questo film, è una delle colonne portanti dello Studio Ghibli, eppure molti tendono a vederlo come il fratello scemo di Miyazaki senior. A lui infatti si deve un'opera immensa e gigantesca come Una tomba per le lucciole, forse uno dei film più crudi e raggelanti che io abbia mai visto, insieme anche al simpaticissimo Pom Poko, purtroppo qui da noi non molto conosciuto. Però tutti tendono a ricordarsi solo di Hayao. Pure io, lo ammetto. Eppure Takahata non è un autore da sottovalutare, pur essendo molto diverso dall'illustre collega non tanto per quello che racconta ma, soprattutto, per come lo racconta, mantenendo una personale autonomia che lo Studio sembra ben felice di lasciargli. Qui sembra volerlo dimostrare appieno con tutte le sue forze, e lo fa compiendo un piccolo miracolo: innanzitutto prende quello che è un'antica fiaba giapponese, quindi un qualcosa che nella sua terra natia è conosciuta a tutti, e ne trae un costoso film d'animazione che, nonostante la prevedibilità della trama e una tecnica che a una prima occhiata può lasciare straniti, riesce a incantare. E lo ribadisco, con una storia simile non è affatto semplice, perché persino per noi italiani suona già sentita - vi dice nulla Pollicina? Eppure quello che Takahata cerca di realizzare non è solo la narrazione per immagini di un mito, ma la vera e propria ricostruzione di un'epoca, quella di un Giappone ormai lontano e che, forse nel bene e forse nel male, ormai è irrecuperabile, ma che finisce per raccogliere un discorso che travalica i continenti e addirittura il tempo, pur rimanendo saldamente ancorato alla propria base. Un qualcosa di complesso solo nelle intenzioni, quindi non c'è da stupirsi che pure in madrepatria abbia incassato meno di quanto si sia speso, pur avendo avuto una serie di recensioni tutte positivissime, ma è un qualcosa di troppo lontano dai moderni canoni per farsi apprezzare su larga scala. Personalmente mi sono lasciato affascinare dalla cura maniacale che hanno fatto nel ricostruire costumi, usanze e mestieri del tempo, un lavoro di ricerca che però non finisce per offuscare quello che è il vero messaggio del film, rimanendo sempre di parte, con un notevole particolare aggiuntivo. Ruba la scena invece la tecnica d'animazione, un disegno tradizionale che si impreziosisce per un tratto inusuale, sia in Giappone che in Occidente, e che fa sentire tutta l'umanità che c'è dietro a questo progetto. Perché è proprio di questo che parla alla fine questo film, dell'umanità, o della scoperta della stessa. E cosa c'è quindi di più umano di un vecchio mito, dato che è la cultura più profonda di ogni popolo e di ogni popolazione? Ma rimane anche una profonda analisi sugli obblighi di una persona e su quella che è la sua vera volontà (umanità, appunto) e di come questi due elementi raramente combacino, creando sofferenza e una serie di scelte sbagliate. Ma sbagliare fa proprio parte della natura umana, forse perché in quanto tale incapace di comprendere cose che vanno al di là della propria concezione, ed è per questo che nonostante tutto non ce la si può avere col personaggio del tagliaboschi, personalmente quello con cui, ironicamente, ho finito per empatizzare maggiormente nonostante siamo di caratteri e convinzioni totalmente opposte. Possiamo dire che Kaguya-hime no monogatari è un sogno, perché solo nei sogni un'esperienza simile è possibile e perché solo nei sogni la piccola protagonista ha potuto vedere avverarsi la vita che avrebbe voluto. Una vita che quell'antico Giappone ricolmo di regole e obblighi le ha negato, quando lei preferiva di gran lunga la povertà nei boschi. Di tutto questo rimangono solo i ricordi, che è possibile rincorrere solo nei sogni, e quel lungo volo che è il riassunto di tutto ciò che si è voluto avere dalla vita. E forse sta lì tutta la bellezza di questo film, nel suo non voler dir nulla di nuovo, ma nel dirlo con una tale pacata prepotenza, nel suo tracciare quell'invisibile linea divisoria fra l'esistere e il vivere che, nell'essere la vita di Principessa, diventa di conseguenza la nostra, composta da obblighi e rituali quotidiani che assomigliano come non mai a quelli del Giappone antico, solo mascherati dalla nostra modernità. Quindi vivi la tua vita, Principessa. Altri mondi sono possibili e da un altro mondo tu vieni, ma solo una è la vita che ti resta. Quindi vivi. E fregatene del resto.
Inutile dire che era candidato agli Oscar ma ha perso contro Big Hero 6. Ma da una manifestazione che preferisce Frozen a Si alza il vento cosa vi aspettate?
Voto: ★★★★★