Scritto da Dino Licci
Viveva nella Francia medioevale del XII secolo un filosofo di nome Abelardo che fu al centro non solo di scontri teologici con la Chiesa cattolica, ma anche di una delicata storia d’amore, quella che fece di un teologo sapiente e ribelle, un poeta capace di fondere insieme la fredda e lucida logica della ragione, con le più profonde e toccanti corde del sentimento e del cuore. Lo scontro teologico si materializzò con un famoso personaggio suo contemporaneo, Bernardo di Chiaravalle, un monaco cistercense che fece della più cieca fede e della più marchiana ignoranza, le armi terribili della sua requisitoria condita della più ferrea intransigenza verso chiunque si allontanasse, per sua sfortuna, dagli insegnamenti della Chiesa cattolica. Viveva costui in un eremo sperduto e desolante, dove convinse i suoi seguaci a seguirlo persuadendoli con una retorica tanto più convincente quanto più povera di argomenti, ma condita da una fede incrollabile e talmente accesa del fuoco della passione, che pochi riuscirono a sottrarsi alla sua opera di conversione. Viveva nella più scrupolosa osservanza delle rigide regole benedettine, laddove i monaci cistercensi cercavano di meritarsi le gioie del paradiso, rinunciando a tutti i piaceri della carne. Lavoro, silenzio, meditazione e digiuno, erano i capisaldi dei suoi inflessibili precetti, ai quali si dovevano sommare l’astinenza assoluta e un conclamato analfabetismo. Molti caddero sotto i colpi della sua pervicace convinzione che, per meritarsi il “perdono” di Dio, si dovesse vivere nella rinuncia e nella sofferenza. Ma tali sofferenze erano niente in confronto a quelle da lui inflitte agli eretici o presunti tali, perché era un convinto assertore della “prova di Dio”, cioè della tortura, sotto la quale molti ci lasciavano la pelle ma, a suo dire, si guadagnavano un posto in prima fila per bearsi della luce di Dio. Cos’altro aspettarsi da chi coniò il termine “malicidio” per giustificare i più efferati delitti di cui si macchiarono i crociati nelle loro furiose scorribande in terra santa, nella stessa terra calcata da Gesù, che predicava la pace, la non violenza, l’amore universale?Fu con quest’uomo, che proprio grazie alla sua inflessibile ortodossia, si era guadagnato un posto d’onore nelle più alte gerarchie ecclesiastiche, che il filosofo Abelardo dovette scontrarsi, affrontando un processo che ricorda quello cui furono sottoposti, anni dopo, altri liberi pensatori come il mio conterraneo Giulio Cesare Vanini o il molto più noto Giordano Bruno, rei tutti quanti soprattutto di aver messo in dubbio il “Mistero” della Trinità, la più alta espressione della capacità dialettica della Chiesa di offuscare le menti, costringendole a rinnegare il bene più prezioso che la Natura o Dio abbiano regalato all’uomo: la capacità d’analisi, quella logica innata nell’uomo, che Aristotele forse per primo evidenziò nel nome della Ragione. Fu proprio la filosofia aristotelica a illuminare la mente di Abelardo per mezzo del suo precettore, un prete molto originale di nome Roscelin che, mettendo in dubbio con argomenti dialettici, il mistero della trinità, sposava, forse senza accorgersene, i rudimenti di quella filosofia aristotelica che, dopo l’anno mille, cominciò a permeare la società occidentale fino ad allora immersa nella più cupa ignoranza. La grande scissione dell’Impero d’Occidente da quello d’Oriente, aveva infatti comportato non soltanto una divisione politica, ma anche e soprattutto, una profonda diversificazione culturale. E se il nostro Occidente rimase depositario dei fondamenti del Diritto pubblico e privato, fu invece l’Oriente a impossessarsi della cultura greca con un processo complesso e articolato, che vide gli arabi e gli ebrei protagonisti di quell’ assimilazione lenta e graduale, che avrebbe finalmente superato la barriera del mediterraneo, per sbarcare in Spagna laddove, a partire dalla battaglia di Poitiers, dal sangue degli arabi e degli occidentali che si sbudellavano a vicenda, cominciarono a spuntare i primordi di una cultura, che fece conoscere all’Europa la matematica, il meccanismo del sillogismo, la medicina, la geometria. I musulmani infatti, erano dotati di tale capacità di apprendimento, che assorbivano facilmente i costumi dei popoli che andavano conquistando, cosicché poterono importare da paesi culturalmente avanzatissimi quali la Persia e l’Egitto, quegli insegnamenti della filosofia greca, che sono alla base di tutta l’evoluzione gnoseologica occidentale. Dapprima gli antichi testi furono tradotti in arabo dalle Università del Cairo e Bagdad, poi finalmente esportate in tutta Europa dalla capacità di due grandi divulgatori del sapere, i grandi maestri musulmani Averroè e Avicenna. L’uomo medievale era stato lasciato nell’ignoranza totale da una classe dirigente che vedeva la Chiesa unica depositaria di una rozza cultura concentrata esclusivamente sull’interpretazione di testi sacri, dalla costola di Adamo al peccato originale. Persino l’igiene intima veniva assolutamente ignorata, essendo considerato peccato grave anche lavarsi i genitali e considerando “perle di Dio” le pulci che trovavano un ambiente ottimale per la loro moltiplicazione, nelle stanze maleodoranti dove la plebe si abbandonava al riposo notturno, dopo un’estenuante giornata dedicata al lavoro e alla preghiera. Ma anche se la classe colta avesse voluto giovarsi degli insegnamenti greci tradotti in arabo, non avrebbe saputo farlo, essendo il latino l’unica lingua che conoscevano. E forse tutto quell’immenso bagaglio culturale che ormai “gli infedeli” sparpagliavano per l’Europa intera, sarebbe rimasta lettera morta, se non avessero provveduto gli ebrei a tradurre l’arabo in latino regalando agli spiriti più liberi e desiderosi di sapere, quel razionalismo aristotelico di cui appunto Abelardo si giovava con la sua focosa oratoria che gli valse, come abbiamo visto, un processo per eresia, promosso dal mistico Bernardo, ma anche l’ammirazione di molti suoi discepoli ed anche di un importante personaggio del tempo. Il canonico Fulberto fu infatti talmente affascinato dall’eloquenza di Abelardo, che non solo gli affidò una cattedra a Parigi, ma addirittura lo accolse in casa perché facesse da tutore alla nipote Eloisa. La fanciulla non aveva ancora compiuto diciassette anni quando il filosofo se ne invaghì. Mentre impartiva lezioni di logica e matematica a questa bellissima adolescente, Abelardo si sentiva investito da una cascata ormonale condita da ammirazione, stupore, sentimento.
Jean Vignaud: Abelardo ed Eloisa sorpresi da Fulberto
E la bella Aloisa era completamente sommersa dall’elegante eloquio del suo tutore e i baci si alternavano alle parole e presto le mani tremanti dello studioso si posarono sul seno di lei sempre più audaci, sempre più esigenti e la passione proruppe tra tenere frasi d’amore, baci, carezze, lusinghe, mentre il tutore diventava amante, lo studioso diventava poeta, il filosofo diventava uomo, la fanciulla diventava “madre”.
«Col pretesto delle lezioni ci abbandonammo completamente all'amore, lo studio delle lettere ci offriva quegli angoli segreti che la passione predilige. Aperti i libri, le parole si affannavano di più intorno ad argomenti d'amore che di studio, erano più numerosi i baci che le frasi; la mano correva più spesso al seno che ai libri... il nostro desiderio non trascurò nessun aspetto dell'amore, ogni volta che la nostra passione poté inventare qualcosa di insolito, subito lo provammo, e quanto più eravamo inesperti in questi piaceri tanto più ardentemente ci dedicavamo a essi senza stancarci».Ed Eloisa di rimando:«Al mio signore, anzi padre, al mio sposo anzi fratello, la sua serva o piuttosto figlia, la sua sposa o meglio sorella... ti ho amato di un amore sconfinato... mi è sempre stato più dolce il nome di amica e quello di amante o prostituta, il mio cuore non era con me ma con te».
La letteratura ci regala molte storie d’amore contrastato e intriso di coinvolgente passione. Tristano e Isotta, Paolo e Francesca, Giulietta e Romeo hanno appassionato diverse generazioni di entusiastici lettori, ma le loro storie erano solo il frutto della fervente fantasia dei rispettivi autori. Questa volta la storia era vera e i protagonisti erano l’uno il più grande maestro di logica, filosofia e teologia, l’altra la più bella, ricca e colta fanciulla di Parigi. E poi la storia ha un finale altamente drammatico laddove la realtà supera di molte misure la più fantasiosa trama dei romanzi d’amore.Al neonato venne imposto il nome di “Astrolabio” (rapitore di stelle) e, in questa scelta, è riassunta tutta la storia del filosofo che, per scampare all’inquisizione, predicava la logica fornendo alla sua attenta platea, gli strumenti per razionalizzare il pensiero, senza intaccare direttamente i misteri della fede. Astrolabio non è un nome dei vari santi che si potevano trovare sul calendario, ma il nome di uno strumento scientifico che esplora i misteri dei cieli con l’uso attento della ragione. Insomma, anche da questa scelta, si evince il dramma dell’animo umano, un coacervo di ragione e passione, logica e sentimento, riflessione e tormento. Abelardo infatti era anche chierico ed ambiva alla carriera ecclesiastica. Come tale non poteva sposarsi ma, per riparare all’inattesa paternità, si sposò morganaticamente, coinvolgendo nella segretezza del fatto, lo stesso Fulberto, cui aveva chiesto scusa ottenendone il perdono. Ma la famiglia della sposa divulgò la notizia tanto che, per smentire i fatti, Abelardo rinchiude la consenziente Eloisa nel monastero di Argenteuil, dov’ella aveva studiato. Fulberto pensò che Eloisa fosse stata costretta a farsi suora, così, per vendicarsi, assoldò tre sicari che, nottetempo, aggredirono Abelardo e lo evirarono, subendo successivamente la stessa sorte secondo la legge del taglione. Abelardo disperato, sentendosi umiliato e sommerso dal ridicolo, decise anche lui di chiudersi in convento, ma i suo studenti lo dissuasero invitandolo a riprendere le lezioni. Ed in questo impegno il filosofo sfogò il suo dolore, regalando così alla Francia e al mondo intero una razionalizzazione del pensiero, l’analisi logica del costrutto, le forme della proposizione, insomma gli strumenti atti alla ricerca, l’indagine scientifica nella ricerca della verità. Anche la Chiesa ne trasse beneficio inventandosi la “Scolastica”, lo strumento atto ad attutire lo scontro tra fede e ragione. Abelardo, pur non avendola più vista per tutta la vita, non dimenticò mai Eloisa, cui continuò ad inviare le più ferventi lettere d’amore. Così, ormai stanco, tra un inno sacro ed una lettera pregna di carnalità e passione, consumò la sua vita tormentata e complessa, finché la morte lo colse in un convento cui si era rifugiato attendendo la fine. Eloisa, diventata badessa, fedele al suo ricordo, raccolse il suo cadavere e lo seppellì nel suo convento, dove continuò ad amarlo come un simulacro immortale di raziocinio, sensualità, spiritualità e passione.