Magazine Psicologia
Sento storie di tutti i tipi, tutti i giorni, come quella di Christian (nome inventato per motivi di privacy), 29 anni, che mi scrive: “senza te, senza qualcuno con cui possa parlare, sfogarmi, mi sento solo.” Le relazioni con lo/la psicologo/a via chat possono aiutare, ma non sostituiscono l’intervento terapeutico che avviene nel qui e ora dello scambio umano. Christian continua: “tu mi piaci come persona e come donna… sei diversa.” Christian si sta avvicinando a vivere il fenomeno di de-realizzazione, caratteristico della realtà virtuale in cui le dimensioni del tatto, dell’udito, della vista, dei cinque sensi, sono sostituite da una tastiera e da uno schermo freddo e neutro. La derealizzazione è accompagnata, sovente, dalla depersonalizzazione, percezione distorta di ciò che avviene nel mondo esterno dell’individuo e quindi anche nelle relazioni.
Christian non sta vivendo la sua vita, i suoi giovani 29 anni, nella consapevolezza e nella gioia. Sta cercando aiuto e afferma di non avere ancora trovato la donna“giusta”. Infatti, è appena uscito da una relazione infelice: la sua ex avrebbe voluto rimanere incinta, desiderava molto un bambino con lui. Entrambi portavano il forte desiderio di avere un bambino.
A differenza di due mesi, invece, Christian riceve la notizia schock, che mi racconta in un tono più angosciato del solito: “Elena ha fatto un bambino con un altro, mentre stavamo ancora insieme!”. Christian sopravvive a questo sconvolgimento, cercando di evitare il confronto, il dialogo con Elena, ma non riesce a liberarsene. Passano le settimane, i mesi e Christian è ancora traumatizzato, ma non fa nulla per risolvere questa situazione che lo fa stare sempre peggio: assume un atteggiamento impulsivo, irrazionale e di chiusura con se stesso e con il Mondo. La sua rabbia e la sua delusione sono sinonimi di un’identificazione simbolica e portatrice di significato: il desiderio di avere e di costruire una propria famiglia. Ma non con Elena, non più. Elena non condivide più gli stessi suoi sentimenti e ha trovato la strada altrove, con un altro uomo.
Christian manifesta sempre più ansia, insicurezza, fino ad esplodere: “Dottoressa, ho bisogno di te!”. L’attaccamento e il transfert nei miei confronti sono disperati. Cerco di rassicurarlo, gli racconto storie piacevoli e interessanti, trovo il modo di farlo gioire un po’: ma il suo malumore è insistente, obbligante; non riesce a trovare altra via d’uscita se non quella della solitudine, del lamento e del “vedo tutto nero”.
Poco alla volta, cerco di farlo comprendere, con amore, al fatto che egli vuole evitare il conflitto, la realtà, buttandosi giù: la separazione è sempre traumatica, ma può essere vissuta diversamente se noi riusciamo a darle un significato, a viverla così com’è, senza stravolgere il nostro stare male, la nostra perdita. Cerco di far comprendere il messaggio anche a lui, ma una chat fredda e sola sembra non riuscire in questo intento. Christian desidera incontrarmi, vedermi, al più presto. Tutto e subito, per colmare un vuoto affettivo molto ampio.
Prometto a Christian di chiamarmi, di sentirci al telefono una/due volte alla settimana. Inaspettatamente la strategia riesce: confessa di sentirsi più sollevato, anche al lavoro sembra essere migliorato nelle sue performance, esce di più con gli amici, ride un po’più spontaneamente. Prima era bloccato, indifeso, ancoratraumatizzato. Progressivamente sta riconquistando la sua autonomia affettiva, anche se la ferita è ancora aperta. Mi permetto di consigliare lui un percorso psicologico, offrendogli il mio aiuto, non solo per via chat e per telefono, ma anche presso il mio studio.
Questo sentimento lo incoraggia, gli dà forza: quella forza che permetterà a Christian di continuare nel suo cammino. Lo so, non sarà un percorso facile e ci sarà un momento che Christian si dovrà separare anche da me; ma non ora, è troppo presto. Claudia Sposini
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