Perché la scelta della forma-romanzo? Cosa offre di più una costruzione narrativa, per lo scrittore e il lettore, rispetto ad una classica inchiesta giornalistica?
Questo libro nasce come un’inchiesta e la cosa più facile era farla restare tale. Ho incontrato Santino Di Matteo, il padre di Giuseppe, poi la mamma, il fratello e il nonno di Giuseppe; il lavoro di documentazione è stato completato con alcuni sopralluoghi in Sicilia, la lettura degli atti processuali, e l’incontro con i magistrati che si sono occupati della vicenda, come Alfonso Sabella e Francesco Lo Voi. Il motivo principale del perché ho scelto la chiave del romanzo risiede nel desiderio di provare a percorrere strade diverse rispetto a decine di libri inchiesta basati sulle dichiarazioni di pentiti o atti di processi. Quella di Giuseppe è innanzitutto una storia, una storia drammatica con un finale tragico, sconvolgente e aveva all’interno tutti gli elementi di un romanzo: i personaggi, l’intreccio dei rapporti, la saga famigliare, i luoghi. Ho pensato che andava raccontata con tutti gli elementi della fiction. In più, è la prima volta che questa storia viene raccontata dalla parte delle vittime: finora gli unici che avevano scritto dei libri sono stati l’autore del rapimento, Giovanni Brusca, e il suo braccio destro e uno degli esecutori materiali del delitto, Giuseppe Monticciolo.
Si è ispirato a qualche opera o autore in particolare? Butto lì due esempi scontati: “Gomorra” di Saviano e “A sangue freddo” di Capote.
Ho letto Gomorra e non avevo letto il libro di Capote. Gomorra è stato un libro di rottura che ha fatto scoprire la Camorra a tanti italiani, ma è più vicino al libro inchiesta, del documento, dove si narrano vicende lontane tra loro legate dalla clan dei Casalesi, senza un vero e proprio protagonista, un antagonista, dei personaggi collaterali. Anche io racconto della potente cosca dei Corleonesi e le vicende della Cupola mafiosa, ma il centro è sempre la storia di Giuseppe Di Matteo e della sua famiglia: in questo i due libri sono profondamente diversi. Dopo aver finito di leggere il libro, il mio amico Stefano mi disse che era perfettamente inserito nel filone del non fiction novel inaugurato, appunto, da Capote con A sangue freddo, e sono corso a comprare il libro. L’unico limite che mi sono posto è quello del rispetto della memoria del bambino, dei suoi famigliari, e dei lettori. Anche per questo il libro ha un capitolo chiuso è una forma di attenzione verso tutti quelli che vogliono avvicinarsi a questa storia senza essere obbligati alla conoscenza dei particolari più scabrosi. C’è chi l’ha aperto e chi l’ha lasciato chiuso, proprio come avevo sperato quando ho chiesto all’editore di inserirlo. Sia gli uni che gli altri non hanno perso il filo del racconto. Il Corriere della Sera in un articolo ha sollevato il sospetto che dietro questa scelta potrebbe esserci una semplice operazione di marketing, ma non è nemmeno lontanamente così.
Lo sviluppo narrativo, il procedere per immagini, farebbe pensare a un progetto per il cinema o la televisione. Dobbiamo aspettarci una fiction su Giuseppe Di Matteo?
Ho cercato di rifuggire da ogni retorica, ogni manierismo, ogni facile espediente, per una scrittura essenziale, per questo è sembrata a molti quasi “cinematografica”. Sia Luciano Violante che Claudio Martelli, presentando il libro, hanno detto che il libro sembra una sceneggiatura. Non è un caso che da qualche settimana stiamo parlando con diverse produzioni cinematografiche e televisive che hanno trovato nel libro una fonte interessante.
Nel libro poco spazio è riservato alla questione della trattativa Stato-Mafia e del presunto coinvolgimento di pezzi di Stato deviati nelle stragi del ’92. Un tema di scottante attualità dopo la riapertura delle indagini a Palermo e Caltanissetta. A cosa è dovuta questa scelta?
E’ dovuta al fatto che la presunta trattativa è esplosa dopo che avevo scritto il libro e dal fatto che Santino Di Matteo me ne ha parlato molto poco. Il libro si basa sul rigoroso rispetto degli atti processuali –non a caso tutte le persone coinvolte figurano con il proprio nome – e i processi sulla trattativa sono ben lungi dalla conclusione. Questo no mi ha impedito di essere in studio con Maurizio Torrealta a Rainews 24 e di parlare 20 minuti di trattativa. Chi ha rivelato degli aspetti di quel periodo è stato Claudio Martelli alla presentazione del mio libro a Montecitorio, quando ha ridimensionato l’intervista concessa ad “Annozero” e – a suo avviso – scambiata per la conferma della trattativa. Lui ha specificato che alla notizia ricevuta da una sua collaboratrice, la dottoressa Ferraro, circa una visita dell’allora capitano De Donno che riferiva di una volontà di Vito Ciancimino di collaborare con gli inquirenti, ma a patto di avere “precise garanzie politiche”, ha risposto dicendo d’informare subito Paolo Borsellino, cosa che la Ferraro fece. Secondo Martelli la trattativa resta un’ipotesi investigativa, ma piuttosto del tentativo di alcuni Carabinieri di cercare di stanare i capimafia –a cominciare da Riina- che all’epoca erano delle primule rosse.