Il presidente della Camera, Laura Boldrini, ha scritto una lunga lettera al Presidente del Parlamento del Bangladesh Shawkat Ali, sottolineando quanto sia importante garantire la sicurezza sul lavoro, i Sindacati Italiani gridano la loro rabbia, la Disney “dopo l’ennesima strage di operai …” lascia il Bangladesh, la Benetton pubblica libricini sulla “campagna abiti puliti”, la Nike, tempo fa, aveva dichiarato di aver abbandonato le aziende che sfruttavano i bambini per la lavorazione dei palloni da calcio, Wallmart e GAP annunciano iniziative per la tutela dei lavoratori “delocalizzati”…
Quello che sconcerta è l’ipocrisia! Tutti noi sappiamo da sempre (compresi la Boldrini, i Sindacati, la Disney, la Benetton, la Nike, Wall Mart, GAP e tutte le multinazionali del brand) che in tutto il Far East ci sono decine di migliaia di Rana Plaza, dove milioni di nuovi schiavi (molti minorenni) sopravvivono con salari vicini ai 50 dollari mensili lavorando 16 ore al giorno per sette giorni alla settimana, totalmente privi di qualsiasi tipo di tutela.
Sono schiavi che costano ancora meno di quelli importati nel 700 dagli Stati Uniti, questi non devono nemmeno essere “trasportati”, inoltre chi li “usa” ha la benedizione dei governi, e spesso anche qualche allettante agevolazione fiscale.
L’ipocrisia è nella connivenza delle Nazioni, nella politica, nelle associazioni di categoria che accettano di parlare di globalizzazione, senza nemmeno prendere in considerazione che la globalizzazione deve valere nelle regole reciprocamente, deve essere uguale per tutti, soprattutto per chi lavora, l’ipocrisia è nei marchi che vendono prodotti in queste condizioni, a basso costo, solo per marginalizzare sempre di più.
L’incidenza del costo della mano d’opera su un “manufatto”, è molto alta, spesso è la voce più importante nei conti di costo, quindi è necessario trovare paesi dove tale costo sia il più basso possibile, se un operaio in Europa “costa” almeno 2.500 €uro al mese, è evidente che un costo di 50 dollari consente margini molto superiori .
La tutela di questi lavoratori deve partire da quei Paesi che hanno già definito le regole per un lavoro “pulito”, le normative igienico –sanitarie, i prodotti nocivi, i piani pensionistici, lo sfruttamento del lavoro minorile, gli orari di lavoro, …. in sostanza la fine della schiavitù.
L’Europa e l’Occidente in generale fanno finta di non vedere, il marchio risolve tutto, il prodotto convenzionalmente definito “Made in Italy”, “Made in France”, “Made in USA” lo è solo per il nome che porta, e non per la tracciabilità della sua filiera produttiva, non per la tutela dei propri lavoratori, non per la qualità delle materie prime, non per l’assenza ditossicità dei materiali, e tutto questo nel nome di una logica perversa che non tutela nemmeno il consumatore finale, che non deve sapere se i vestiti che indossa sono stati realizzati da un lavoratore del Rana Plaza .
Dopo un fatto così eclatante, dopo 500 morti, dopo le polemiche e l’imbarazzo dei grandi gruppi, l’opinione pubblica si sensibilizza, poco ne parlano i media tradizionali, notoriamente “sensibili” agli interessi dell’industria del lusso.
La Bangladesh Garment Manifacturers and Exporters Association, potentissima associazione forte di 5 mila società che “difendono” 4 milioni di lavoratori tessili nel paese, che detiene il monopolio della gestione dei nuovi schiavi, perché le aziende con un nome o un marchio non si sporcano le mani appaltando direttamente il lavoro ai vari Rana Plaza, invita i grandi nomi del tessile occidentali a non lasciare il Bangladesh perché questo significherebbe lasciare senza lavoro centinaia di migliaia di “poveri lavoratori”, questo appello si traduce in un ulteriore ricatto al governo del Bangladesh che probabilmente offrirà maggiori agevolazioni a chi si ostinerà a produrre nel paese, ma non certamente in un miglioramento delle condizioni dei lavoratori.
E se qualche marchio, per salvare la faccia, decidesse di trasferire le produzioni, molto probabilmente sceglierebbe Paesi dove la comunicazione non è così facile e libera, dove ci sono nuovi schiavi ancora più affamati, disposti a lavorare di più a costi più bassi e dove non si rischi di finire in prima pagina coinvolti nel crollo di un palazzo.
N.D.R.: Per dare un’idea più chiara ai nostri lettori delle differenze dei costi di produzione tra i Paesi occidentali e Paesi come il Bangladesh prendiamo in prestito questo schema dalla CNN:
Nello schema, la cui fonte è l’Istituto del lavoro globale e dei diritti umani, sono messi a paragone 3 diversi costi nella produzione di una maglietta in Jeans:
- Industruial Laundry = Lavaggio industriale
- Materials = Materiali
- Labor Costs = Costo del lavoro